Editoriale tratto da Far da sé n.447 di Febrraio 2015
Autore: Carlo De Benedetti
Se lo scrittore Cesare Pavese afferma che “lavorare stanca” la Bibbia sostiene che “col sudore del tuo volto mangerai il pane”. D’altronde la parola “lavoro” deriva dal latino “labor” che significa fatica e i Francesi lo chiamano “travail” che richiama in modo palese l’idea del travaglio, quasi della sofferenza (non chiamiamo forse “travaglio” la fatica e il dolore della donna che partorisce?).
Quanto parlare si fa in questi nostri giorni di lavoro, perché non ce n’è abbastanza (la disoccupazione, soprattutto giovanile, ha raggiunto livelli drammatici), perché è reale e incombente per troppe persone il rischio di perderlo, perché politici e sindacalisti si attardano in sterili polemiche nominalistiche anziché adottare in armonia scelte forti e coraggiose, perché chi ha il posto fisso troppo spesso se ne approfitta e lo trasforma in una rendita parassitaria, perché troppi scandalosi privilegi vengono difesi con tracotanza e impudenza, perché l’evasione fiscale e la corruzione imperante divorano risorse che potrebbero essere altrimenti impiegate, perché… ecc.
Ma quanto ancora la ricerca dei giovani punta su un lavoro fatto in camicia e cravatta piuttosto che in guanti e tuta, perché è ancora viva la convinzione che esistano lavori di serie A, quelli per cui non ci si sporcano le mani e si fanno solo con la mente, e altri di serie B, idraulico, calzolaio, elettricista, contadino, piastrellista, muratore, fabbro, badante, cameriere ecc, che, proprio per essere lavori manuali, sono esclusi dal proprio orizzonte?
Sappiamo di non dire cose originali, anzi forse abbiamo banalizzato troppo un problema che richiede sempre tanta serietà perché chiama in gioco le vite stesse delle persone, ma un buon far da sé queste cose le respira, la manualità per lui è importante, sa quale risorsa sono le sue mani e quali miracoli può compiere con esse, le impiega attivamente nel momento dello svago e del relax se non può farlo nella sua occupazione primaria, non fugge dalla fatica che imperla di sudore la fronte o dal travaglio che sporca le mani e le riempie di calli.
Anche il profeta Maometto diceva “colui che alla fine della giornata è esausto a causa del lavoro delle sue mani è perdonato da Dio” che, in termini laici, equivale a dire che il lavoro e l’impegno quotidiano salvano le nostre vite, non solo perché ci danno cibo e benessere, ma perché le rendono utili, significative, importanti per noi e per gli altri.
Ma bisogna essere disposti a fare fatica…