Futuro artigiano, intervista a Stefano Micelli

Il lavoro non si cerca, si crea

Questo è il titolo di un saggio interessante, di facile lettura, che indica con chiarezza una via di crescita mettendo alla base non un ritorno al passato, ma la valorizzazione della manualità e della tradizione del nostro Paese, unita alla tecnologia e alla capacità imprenditoriale. Stupisce favorevolmente il fatto che l’autore sia un intellettuale, nonché giovane docente di Economia e Gestione delle Imprese all’Università Ca’ Foscari di Venezia; il professor Stefano Micelli, anche grazie al lavoro di due anni speso in visite presso piccoli operatori e grandi manifatture, ha potuto argomentare la sua teoria in maniera convincente e documentata.

“Futuro artigiano”, titolo provocatorio per tanti, ma musica per le nostre orecchie, visto che da 40 anni sosteniamo la valenza della manualità e la divulghiamo.
Qual è la sua ricetta innovativa?

La ricetta per il rilancio di un pezzo importante della nostra economia, in particolare di quei settori che etichettiamo come Made in Italy, l’abbiamo sotto il naso. è quel sapere artigiano che rende possibili i successi internazionali delle nostre imprese nel campo della meccanica, della moda, del design e dell’agroalimentare. Questo saper fare artigiano rappresenta il tratto più specifico del nostro modo di fare impresa. Non è tipico solo della piccola impresa; costituisce un ingrediente essenziale anche di quella media impresa che oggi è il vero pilastro del nostro export. In quest’ultimo decennio abbiamo dato qualità manageriale a questo saper fare e abbiamo continuato a esportare nonostante la concorrenza internazionale sempre più agguerrita. Nel libro suggerisco di ripartire proprio da questo saper fare per rilanciare la nostra economia nel mercato a livello globale.

Possiamo dire che l’abilità e la tradizione artigianale italiana vanno considerate, insieme al patrimonio artistico e alla bellezza del territorio, due tra le nostre risorse esclusive, con un grande potenziale ancora da sfruttare per dare un impulso importante alla nostra economia?
Fino a oggi noi abbiamo avuto un approccio al manifatturiero, e all’economia che ne deriva, di tipo molto tradizionale; abbiamo pensato che la modernizzazione del nostro sistema industriale dovesse passare necessariamente attraverso investimenti a sostegno delle economie di scala e delle grandi dimensioni. Oggi ci rendiamo conto che le nuove tecnologie rendono, almeno in parte, queste convinzioni obsolete. Abbiamo in Italia una grandissima tradizione manifatturiera di prodotti su misura, personalizzati, a forte connotazione emotiva e culturale, che possono diventare prodotti molto apprezzati sui mercati a livello internazionale. La nuova borghesia mondiale chiede prodotti come quelli italiani a condizione che riflettano le caratteristiche di cultura e artigianalità di cui siamo depositari.

Quindi questa produzione sarebbe diretta tutta all’esportazione e dall’estero dovrebbe venire la nostra rinascita?
L’Italia ha da sempre valorizzato una forte proiezione internazionale; nell’ultimo decennio, da quando la Cina è entrata nella WTO (World Trade Organization), abbiamo fatto fatica a capire le dinamiche della nuova geografia del mondo. Agganciati a un modello transatlantico, l’asse Europa-Stati Uniti, non ci siamo accreditati a sufficienza come potenza economica nelle aree emergenti del mondo, nei BRICS, ovvero nei Paesi che oggi conoscono le migliori performance a livello internazionale. Proprio in questi Paesi bisogna raccontare l’Italia e la sua storia; se l’Italia ripartirà, sarà perché aggancerà il trend di crescita di questi Paesi.

Quali sono i soggetti che dovrebbero impegnarsi per stimolare e valorizzare il nuovo lavoro artigianale?
Credo che tutti debbano fare la loro parte: il pubblico, semplificando fisco e burocrazia, le associazioni di categoria, offrendo nuovi servizi, le università, garantendo nuovi collegamenti con la ricerca e la formazione. Ciò detto, credo molto a una nuova stagione di start up per imprese che potrebbero cambiare il nostro modello di crescita mescolando in maniera originale nuove tecnologie (in particolare nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione) con abilità artigiane tradizionali. Se noi riusciamo a lanciare questi nuovi modelli “ibridi”, se riusciamo a mettere in moto aziende manifatturiere e di servizi che nascono globali e che sono in grado di sfruttare a pieno le nuove tecnologie, allora potremo veramente contare su una rinascita del comparto e su un traino complessivo a vantaggio di tutta l’economia del Paese.

Come si fa a superare il modello culturale dominante che considera i lavori manuali occupazioni di serie B e continua a produrre giovani con professionalità di cui il mercato del lavoro non ha bisogno?
I nostri giovani li attiriamo scommettendo su vari piani. Un piano è certamente quello economico: dobbiamo essere in grado di dimostrare che dietro a questa economia ci sono delle risorse, c’è del lavoro. Non credo però che basti parlare di lavoro e di risorse. Bisogna essere in grado di tirare via un po’ di polvere dall’immagine del lavoro artigiano. Bisogna comunicarlo e renderlo attraente. Questa attività di rilancio sul piano culturale passa molto attraverso i media, soprattutto quelli di nuova generazione: bisogna inserire questa attività lavorativa nell’immaginario dei giovani e questo richiede impegno e fantasia.

Nel suo libro fa riferimento ai makers americani: quale punto di contatto ci può essere tra il loro fare e l’artigianato italiano?
I makers americani sono un movimento che possiamo chiamare di artigiani tecnologici: artigiani che guardano molto alla tecnologia, soprattutto all’elettronica. Questo fenomeno, diversamente da quanto succede in Italia, ha avuto una grande legittimazione culturale: testate famose come Wired e Make, così come istituzioni prestigiose, hanno sostenuto il movimento. La politica poi si è interessata a queste dinamiche appoggiando tutta un’attività di tipo didattico nelle scuole, per avvicinare le persone alle nuove tecnologie, in particolare alla stampa 3D. Noi in Italia dobbiamo imparare da questo movimento. Soprattutto dobbiamo imparare dalle cose che sono riusciti a mettere in moto in campo culturale.

In Italia si dovrebbe fare la stessa cosa sfruttando di più il nostro Made in Italy?
Se oggi vogliamo far rifiorire le culture tecnologiche e scientifiche nel nostro Paese dobbiamo necessariamente passare per un recupero della manualità. Gli studenti delle scuole medie e dell’università devono tornare a fare esperimenti, devono tornare a costruire strumenti, devono avere il contatto diretto coi materiali, con quanto succede nei laboratori. Se noi rimettiamo in moto questa cultura del fare, del fare pratico, io sono convinto che ritroveremo anche le grandi vocazioni scientifiche. Se la scienza è solo imparare formule a memoria, è difficile che i nostri giovani abbraccino questa vocazione.

Nel suo libro dice che dobbiamo capire quale importanza attribuire all’intelligenza di tipo “T” (quella misurata dai test), ma anche quanto valorizzare l’intelligenza in versione “A” (l’intelligenza artigiana). Come vede il nostro progetto “Manualità, un gioco da ragazzi”, che si pone l’obiettivo di introdurre alla manualità i bambini sin dalle scuole elementari?
Credo vada fatta una premessa importante: negli ultimi 15 anni abbiamo dato massima prevalenza all’attività di manipolazione di simboli e, di conseguenza, all’attività svolta dagli analisti simbolici che lavoravano di fronte a un computer. Abbiamo dimenticato che una forma di accesso al sapere è proprio il rapporto con la materia attraverso il fare. Oggi siamo chiamati a bilanciare questa stortura, riportando la curiosità dei giovani verso una scoperta del mondo che passa attraverso la manualità. Io penso che operazioni come Manualità Ragazzi siano importantissime, perché ridanno ai giovani la possibilità di riscoprire il mondo in forme diverse.

WWW.FUTUROARTIGIANO.IT

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