Interviste e parole che vorremmo alla ribalta

Editoriale tratto da “Far da sé n.462 Giugno 2016”

Autore: Nicla de Carolis

È stato visto da tanti telespettatori, me compresa, curiosa e incredula, un recente programma tv che aveva per tema una star del gossip, Fabrizio Corona, diventato, ahimé, un mito da imitare e invidiare per molti, meritevole di una ribalta di ore in cui c’è stato anche chi lo ha compatito e lo ha difeso nonostante il suo stile di vita, la tossicodipendenza e le sue condanne. Senza inutili moralismi, qual è il messaggio, l’informazione, l’arricchimento, il divertimento che possono dare programmi del genere? Mi pare che l’obiettivo possa essere solo avere audience, solleticando le curiosità più meschine dei più impreparati. Certo, la nostra società, in gran parte ricca di meriti, potrebbe migliorare se i modelli proposti, soprattutto in tv, per molti unico mezzo di informazione, fossero più edificanti. Penso con meraviglia e commozione alle interviste di Diderot e d’Alembert fatte agli artigiani per dar voce e valorizzare il loro lavoro; interviste necessarie per compilare correttamente le tavole dedicate alle arti e mestieri della mitica Encyclopédie (XVIII secolo), il manifesto dell’illuminismo e di una cultura che ha portato avanti principi di etica universale, libera e laica. O quelle, ancora prima, fatte da Leopoldo de’ Medici (XVII secolo), figura di spicco della cultura fiorentina, principe illuminato, acceso promotore delle manifatture, dell’agricoltura, del commercio e accademico della Crusca. In questa veste contribuì in maniera importante alla compilazione del vocabolario grazie alle testimonianze riguardo alle molte attività artigianali e tradizionali fiorentine, raccolte sul campo da artigiani e fornitori di palazzo. E così nel magnifico libro “Le parole del mestiere. Testi di artigiani fiorentini della seconda metà del Seicento tra le carte di Leopoldo de’ Medici” (Accademia della Crusca editore, euro 60), ci si può deliziare a leggere termini come lima da sgrossare, lima sottile, martello da far pancetta… o calzatoio, guantaio, marocchino, masello, rastrelliera… o verbi come lustrare, scanalare, smerigliare, inamidare, inchiodare. Solo alcuni esempi di un repertorio ricchissimo che ci danno un’immagine della vivacità anche linguistica del mondo artigianale e del lavoro della Firenze di fine Seicento. Ma senza tornare al ‘600 sono tanti gli artigiani di oggi, dalle cui testimonianze e dagli interessanti saperi si potrebbe trarre esempio, artigiani come Valerio, Jacopo e Cesare che, vicino all’Arco della Pace a Milano, approfittando del ritorno alla grande dell’uso delle bici in città, hanno aperto una piccola officina per la riparazione e la vendita, gentili, bravi nel mestiere e al passo con i tempi, vendono anche su internet e consegnano a domicilio; con nostra somma gioia nel loro laboratorio c’è sempre la coda. O sempre a Milano meriterebbero un’intervista i calzolai dell’insegna Alvisi; risuolano scarpe di marca, inglesi, di alta gamma, calzature con lavorazione “goodyear”, smontandole completamente e facendole tornare come nuove con una maestria frutto di un sapere tramandato da diverse generazioni. Insomma, le parole del lavoro sono quelle alle quali vorremmo venisse data una ribalta, sicuramente coinvolgente e costruttiva.

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