Edifici collabenti e amore per il nostro Paese

Tratto da “Rifare Casa n.76 – Luglio/Agosto 2021″

Autore: Nicla de Carolis

Sempre piuttosto criptica la nostra burocrazia, sia che si tratti di interpretare le disposizioni, sia che si tratti dell’utilizzo di parole assolutamente al di fuori delle conoscenze dei più: il significato di collabenti, riferito a edifici, fino a poco tempo fa, era appannaggio solo dei professionisti. In realtà anche se si consulta il dizionario Treccani la parola non risulta, si tratta di un termine da dizionario fiscale utilizzato nelle classificazioni catastali per indicare un edificio che non produce reddito e con determinate caratteristiche.
Se la burocrazia volesse essere meno antipatica ai cittadini, ci sarebbero tanti sinonimi per renderne subito chiaro il significato: edificio diroccato, non agibile, cadente, in rovina.

Ma torniamo al punto di cui ci interessa parlare, ovvero il SUPERBONUS 110% che ci consente di ricostruire o riqualificare gli edifici che ricadano in questa categoria con contributi davvero interessanti (ma per questo potete leggere l’articolo da pagina 78): il dato da sottolineare, peraltro riscontrabile andando
in giro per l’Italia, è che, secondo il censimento del Centro studi casa ambiente territorio (Cescat), ci sarebbero oltre 2 milioni di edifici, il 6% del patrimonio immobiliare nazionale, che sta andando in rovina. Ovvero 50mila tra palazzi,
ville e castelli nobiliari in stato di abbandono e la bellezza di 20mila tra edifici ecclesiastici, chiese, abbazie e conventi in disuso. Che fanno compagnia a 130mila strutture industriali, vecchie fabbriche e capannoni, vale a dire qualcosa come 10mila km quadrati occupati da immobili abbandonati (dati ISPRA). Numeri importanti, che logicamente dovrebbero portare a dare priorità al recupero di questi immobili, in buona parte con valenze architettoniche,
o quanto meno al recupero del suolo da essi occupato piuttosto che a nuove costruzioni su altro terreno reso edificabile.
La situazione, però, è la seguente: a una diminuzione delle nascite (nel 2019 sono nati 420mila bambini) corrisponde un aumento della cementificazione, abbiamo consumato 57 milioni di metri quadrati di suolo, al ritmo di 2 metri quadrati al secondo.
È come se ogni bambino che nasce portasse con sé ben 135 metri quadrati di cemento. Nelle città è in pericolo la capacità di resilienza ai cambiamenti climatici, con il peggioramento della qualità della vita e della sicurezza degli abitanti a causa della perdita di permeabilità del territorio, fondamentale per mitigare fenomeni di dissesto. In campagna sono a rischio intere produzioni alimentari.

Alla luce di questi dati è incontestabile che la strada per cambiare direzione è dire stop al consumo del suolo, da troppo la politica ne parla, ma per resistenze
e motivi clientelari il divieto non è ancora legge nazionale, e dare il via al recupero degli edifici collabenti, in buona parte compito dei privati, in questo caso motivati, oltre che dall’amore per il proprio Paese, anche dal vantaggio del cospicuo bonus riconosciuto dallo Stato per queste operazioni.

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