In occasione del convegno “L´innovazione dal basso – Cambiare il mondo senza chiedere permesso” tenutosi a Torino il 14 Giugno u.s., abbiamo visitato la sede del FabLab locale in cui cui si ritrovano i makers torinesi, situato in un’area industriale dismessa, dove operano con la supervisione delle Officine Arduino e ospitati da ToolBox, società di co-working.
Piuttosto che ricordare o spiegare nuovamente chi siano i makers a chi non avesse seguito i nostri recenti editoriali, preferiamo dire il perché, noi della rivista, abbiamo deciso di portare a conoscenza i nostri lettori di questo fenomeno.
Principalmente si tratta di affinità: man mano che approfondiamo la conoscenza dei makers, fra questi e i far da sé si rilevano numerosi elementi in comune. I due mondi sono solo apparentemente molto distanti. Noi siamo abituati a ideare e progettare per costruire qualcosa o risolvere problemi tecnici, usando strumenti a volte semplici e manuali, a volte complessi e professionali, appropriandoci quando possibile di materiali di recupero, avanzi e macchine dismesse; allo stesso modo i makers hanno idee e creatività da esprimere, riconoscono il valore di ciò che è dismesso, ma può ancora essere riutilizzato, si avvantaggiano di una notevole gamma di attrezzature.
I relatori del convegno: Riccardo Luna, giornalista, Juan Carlos De Martin, docente universitario, Massimo Banzi, inventore Arduino.
Secondo punto è la diversa estrazione socio/territoriale; mentre noi far da sé siamo un po’ “lupi solitari” e provvediamo in prima persona a una riparazione o a una costruzione in casa, in giardino, in garage, quindi in uno spazio nostro, i makers al momento hanno necessità di una maggiore aggregazione, creando una sorta di lavoro cooperativo, dove si può anche fare da soli, ma gomito a gomito con altri, da cui attingere consiglio e aiuto quando c’è da imparare o da superare una difficoltà imprevista. Ovviamente un simile concetto di aggregazione ha bisogno di una serie di condizioni che al momento possono concedere solamente le città; uno di questi è la necessità di spazi, magari non enormi (anche se le Officine Arduino sono collocate in una vasta area nell’ambito di una fabbrica dismessa), ma aperti a una partecipazione collettiva, dove si possa materializzare la “nuvola” creativa, il Caos nel quale nascono e si sviluppano nuove idee.
Le differenze si attenuano, oppure si modificano se comprendiamo nell’analisi anche i makers internazionali, nella fattispecie quelli statunitensi, nazione dalla quale si è allargato a macchia d’olio il “movimento”. Leggendo le riviste d’oltreoceano dedicate a questo mondo si nota come in America il maker sia molto più interessato alla manualità e alla praticità, avvicinandosi tantissimo sotto questo profilo al nostro modo di far da sé. Resta tuttavia una profonda differenza “umorale”, fra loro e noi (noi inteso come “italiani”), che ha espresso molto bene nel suo intervento Massimo Banzi: “Quello che hanno colto gli Americani è questa capacità del maker di non fermarsi all’hobbismo, di partire magari da hobbista, col cazzeggio insomma, per usare una parola italiana, e dal cazzeggio però non darsi il limite di dire “io cazzeggio e basta”. Se loro scoprono che da questo viene fuori qualcosa che può cambiare il mondo, sono pronti a farlo.
Appare chiaro che gli Americani hanno un ottimismo interiore che gli Italiani non hanno: quando faccio corsi introduttivi negli Stati Uniti e faccio lampeggiare un led a comando, la prima cosa che si fa imparando a programmare Arduino, i presenti già pensano a quale multinazionale nascerà dalle loro idee,mentre in Italia… diciamo che c’è un pochino più di frizione, il sistema non è così oliato, come negli Stati Uniti”.