Quattro pannelli di multistrato di betulla, uniti tra loro con colla e robuste staffe metalliche, compongono una panca fai da te con una seduta per una sola persona, perché i due spazi laterali sono aperti per fare posto a due grandi piante verdi. Quattro ruote di grande diametro permettono di spostare l’oasi verde
Se amiamo portare un po’ di natura tra le mura di casa, la costruzione di questa panca fai da te dalla linea semplicissima risponde bene allo scopo: può servire per un momento di relax in terrazzo, per cambiarsi o mettere le scarpe, in cui molto spazio alle estremità è dedicato all’alloggiamento di due grossi vasi con piante verdi. Quattro ruote di grande diametro (150 mm) portano alla giusta altezza la seduta e rendono mobile la panca fai da te che quindi può stare, come in questo caso, fuori dalla stanza da bagno, ma può essere facilmente e velocemente spostata in qualsiasi altro punto dell’abitazione, anche al di fuori.
Con una dotazione completa di elettroutensili Bosch a batteria la costruzione risulta alla portata di tutti: si tratta di unire con colla e staffe metalliche quattro pannelli di legno multistrato e di avvitare a quello inferiore le quattro ruote. I pannelli di legno sono stati lasciati grezzi senza alcun trattamento di finitura; ancora più importante, quindi, che tutti i bordi vengano accuratamente levigati e leggermente smussati per eliminare ogni asperità o imperfezione lasciata dal taglio. A chi in casa si occupa del verde resta il compito di preservare dall’umidità il pannello inferiore su cui appoggiano i vasi, collocandoli, com’è peraltro consuetudine, su adeguati sottovasi.
Cosa occorre
Utensili: trapano battente e avvitatore a batteria AdvancedImpact 18, levigatrice a batteria PSM 18 Li con foglio abrasivo con grana 120, microsega a batteria AdvancedCut 18 con lama Wood Basic 50, sega circolare a batteria PKS 18 Li, batteria PBA 18V 2,5 Ah, 2 strettoi, 4 morsetti d’angolo/morsetti a morsa, set di punte e trapani adatti.
Ferramenta: 16 rondelle 4,3×12 mm, 4 ruote girevoli diametro 150 mm, 12 staffe a L da 50×50 mm, 80 viti per legno da 3,5×16 mm.
Legno: 2 pannelli multistrato di betulla da 1200x15x380 mm, 2 pannelli multistrato di betulla da 1200x15x280 mm.
Varie: colla, matita, metro pieghevole, occhiali di sicurezza, protezioni per le orecchie, maschera per le vie respiratorie.
Realizzazione della panca fai da te su ruote
Tempo richiesto: 8 ore
Segnare le rientranze sul pannello superiore e tagliare
Sul pannello superiore da 1200×380 mm si segnano le rientranze desiderate (in questo caso 150×350 mm) per le piante e si taglia l’incavo usando la microsega a batteria AdvancedCut 18.
Tagliare i bordi lunghi con un angolo di 45°
I bordi lunghi di tutti e quattro i pannelli di multistrato vengono tagliati con un angolo di 45° con la sega circolare a batteria PKS 18 Li. Per ottenere tagli puliti e diritti, si fissa una lunga tavola di legno dritta con due morsetti in modo che funga da guida per la sega circolare.
Unire i pannelli
I pannelli si uniscono stendendo un velo di adesivo vinilico sulla faccia di contatto e applicando alle estremità i morsetti angolari. Quindi si aggiungono tre staffe a L, distribuite lungo la linea di giunzione, fissandole ognuna con 4 viti da legno. Per riuscire a mettere comodamente le ultime viti delle staffe, anche quando la “scatola” si chiude con il 4° pannello, bisogna lasciare per ultimo uno dei due pannelli stretti e aver già fissato le staffe a L sui lati dei due pannelli grandi sui quali il 4° va fissato.
Levigare bordi e spigoli
Si levigano i bordi e gli spigoli con la levigatrice palmare PSM 18 Li e un foglio abrasivo di grana 120. Se tra i singoli elementi in legno si è creata qualche fessura, si applica un po’ di colla: la polvere di levigatura si mescola alla colla e riempie gli spazi.
Avvitare le quattro ruote
Si avvitano le quattro ruote per mobili alla base del corpo, a 20 mm di distanza da ogni bordo, con viti e rondelle.
Quattro anelli a forma di dodecagono collegano dodici montanti, piegati e curvati per comporre un robusto e slanciato portavasi fai da te: la costruzione si può realizzare anche senza dover ricorrere alla saldatura
Sistemato in ingresso o in un angolo del soggiorno è un portavasi fai da te davvero imponente che si costruisce interamente con piattina di ferro spessa 3 mm e larga 20 mm: con questo materiale si realizzano i dodici montanti e i quattro anelli dodecagonali che bloccano in posizione i montanti. Il primo anello blocca i montanti alla base con un diametro di circa 267 mm; con lo stesso diametro il terzo anello li blocca prima che inizi il ricciolo. Il secondo anello ha un diametro di 210 mm circa e viene posizionato appena sopra la piega a zeta centrale; il quarto anello, il più grande, con un diametro di 372 mm, ferma i riccioli che sporgono esternamente al vaso.
Tutti gli anelli vengono forati al centro di ogni vertice per ricevere i bulloni e i dadi che li legano ai montanti. L’unico punto in cui potrebbe servire la saldatrice è al momento di unire le estremità dei quattro anelli per chiuderle, ma si può ovviare lasciandoli più lunghi di 25 mm, molandoli di sbieco a becco di flauto, sovrapponendoli in modo che non facciano spessore, incollandoli con adesivo epossidico e rinforzando la giunzione con un ribattino.
Se l’assemblaggio del portavasi fai da te risulta abbastanza semplice, richiedono un maggiore impegno costruttivo le dime e le controforme in ferro che sono indispensabili per piegare i montanti a zeta al centro, per dare loro la morbida curvatura che contraddistingue la parte inferiore e per realizzare i dodici riccioli con cui terminano.
Il modello di questo portavasi fai da te in ferro curvato può essere trasformato in un portaombrelli: basta aggiungere sul fondo un piattino di lamiera su cui appoggino e sgocciolino gli ombrelli. Facendo più lunghi i pezzi verticali e aggiungendo altri due anelli che ne irrobustiscano la struttura lo si può trasformare in un appendiabiti da ingresso.
Cosa occorre per realizzare il portavasi fai da te in ferro
15 metri di ferro piatto 3×20 mm;
60 bulloncini M5x10 mm
60 dadi di ottone a cupola.
Per le controforme:
2 pezzi di ferro a T da 80x80x10 mm lunghi 400 e 150 mm;
un metro di quadrello 12×12 mm;
mezzo metro di tubo quadro 30x30x3 mm;
un pezzo cilindrico Ø 48×30 mm.
Componenti del portavasi fai da teIl ferro piatto si taglia più facilmente e con più precisione mettendolo in morsa orizzontale e non verticale. Servono dodici montanti lunghi 800 mm, due pezzi da 840 mm, uno da 660 mm e uno da 1170 mm per gli anelli orizzontali.Tagliati a misura tutti i pezzi vi si traccia prima la mezzeria e poi, su questa, si punzonano gli inviti per i vari fori, rispettando le distanze che, nei montanti, sono, a partire da un capo, a 10, 145, 375, 475 e 790 mm.Praticati con punta Ø 5,5 mm i fori in tutti e sedici i pezzi, si curvano sulla dima le estremità dei montanti a formare i riccioli.Se non si ha una piegalamiere, la piega a Z a mezz’altezza dei montanti si fa sulla morsa a martellate, curando la squadratura della piega stessa. Per ogni montante abbiamo la prima piega a 410, la seconda a 460 e la terza a 770 mm: conviene segnarle con una punta a tracciare.La piega del montante fa da appoggio sulla “rotaia” della controforma di curvatura contro la quale va stretta la piattina di ferro fino a ottenere la curvatura voluta.Se i fori non sono fatti prima di piegare e curvare i pezzi può diventare problematico tenere i pezzi in posizione sotto la rotazione della punta del trapano.
Ferro da riccioli con dime
Una striscia 3×20 mm si piega facilmente anche a mano libera ma, per ottenere curve e pieghe tutte uguali, è assai più comodo servirsi di una controforma da montare nella morsa. L’ideale sarebbe una macchina piegaferri con tutti i suoi begli accessori per ogni tipo di piega e di voluta, ma per fare solo questo lavoro non è il caso di procurarsela. La dima per fare i riccioli finali dei montanti del vaso può essere fatta saldando un pezzo di tubo quadro e uno di tondo su un supporto che può essere un segmento di tubo quadro; l’importante è che fra i due pezzi saldati sopra resti uno spazio di 4 mm.
Per la curva morbida alla base dei montanti, la dima è costituita da un supporto a T con una piastra spessa 6 mm, larga 80 e lunga circa 500 mm, sulla quale si saldano due spezzoni di quadrello 12×12 mm: uno da 85 mm che fa da spalla e uno di circa 400 mm, curvato nella morsa con l’aiuto di cagna da muratore e mazzetta fino a che, posandolo sulla suola del ferro a T, i capi ne sfiorino un bordo e la pancia arrivi a 10 mm dal bordo opposto. La curva non è esattamente simmetrica: il primo tratto di un ramo, da fissare parallelo alla spalla, è infatti diritto. Anche qui fra spalla e appoggio resta un corridoio largo 4 mm.
Montaggio di anelli e montanti
Creare gli anelli dodecagonali
Per fare gli anelli dodecagonali si usa la dima a V. La piattina è già forata e la piega deve ricadere in corrispondenza di ogni foro. Quindi si mette il pezzo nella dima con il foro centrato sull’apertura della V formata dai quadrelli.
Chiudere l’anello
Per chiudere l’anello se ne saldano le estremità oppure si incollano con adesivo epossidico, rinforzando l’unione con un ribattino.
Montare gli anelli
Montato l’anello di base si prosegue con gli altri.
Inserire i bulloncini di fissaggio
Per inserire i bulloncini di fissaggio senza difficoltà, basta mettere la lama di un cacciavite nei due fori e stringere i pezzi con una pinza poligrip.
La controforma usata per piegare la piattina per fare i dodecagoni, si usa anche per rendere verticale l’estremità inferiore dei montanti. È realizzata su un supporto a T fatto con piatto largo 80 mm e spesso 6 mm. Sulla suola sono saldati 3 pezzi di quadrello 12×12 lunghi 50 mm, due sono paralleli con uno spazio fra loro di 4 mm; il terzo è messo a formare una V molto larga, con angolo di 145° rispetto al quadrello con cui è in contatto con uno spigolo. Il dodecagono ha angoli interni di 150°, la dima si fa con un angolo più stretto, per il lieve “ritorno” del ferro.
Grazie alla presenza di due pompe è possibile usare l’idropulitrice DHS Series 2.A in modalità nebulizzazione o lavaggio ad alta pressione
Una pompa a bassa pressione (Spraying Pump) collegata a una lancia per la nebulizzazione e una pompa ad alta pressione (Washing Pump) collegata a una lancia per il lavaggio: 2 strumenti in uno con cui, per passare da una modalità di lavoro all’altra, è sufficiente ruotare un interruttore e cambiare lancia. Stiamo parlando della DHS Series 2.A, l’innovativa idropulitrice ad alta pressione di Annovi Reverberi, che può essere adoperata per la nebulizzazione di prodotti (detergenti, disinfestanti, sanificanti) e per il lavaggio forte o delicato sulle superfici in esterni. Il tutto senza complicate operazioni: bastano pochi secondi per sostituire la lancia. La macchina, infatti, è provvista di 2 lance, una per la nebulizzazione e una per il lavaggio. A quella per il lavaggio può essere collegata la testina a getto rotante, in grado di rimuovere lo sporco più ostinato, oppure la testina a getto regolabile, per una pulizia più delicata.
La modalità nebulizzazione (Spraying Mode) è perfetta per sanificare aree e oggetti esterni, disinfestare il giardino dalle zanzare, distribuire prodotti fitosanitari sulle piante oppure effettuare il prelavaggio di superfici particolarmente sporche, come l’automobile.Modalità lavaggio (Washing Mode): la funzionalità tradizionale presente in ogni idropulitrice ed è necessaria per rimuovere lo sporco più ostinato o risciacquare in modo rapido il detergente.
Detergenti ma non solo
Il serbatoio situato nel retro è utilizzabile con tutte le funzioni della macchina. I detergenti possono essere usati con la pompa ad alta pressione per le parti più sporche dell’autovettura, ma anche con quella a bassa pressione per il lavaggio del motore o di complementi per esterni delicati. In alternativa, prodotti sanificanti, fitosanitari o disinfestanti, vanno assolutamente utilizzati con la pompa a bassa pressione.
Filtro, lance e tubi ad alta pressione
Applicazione del filtro
Si avvita alla presa di alimentazione dell’acqua il filtro, trasparente e ispezionabile, in grado di bloccare le impurità che altrimenti entrerebbero nel corpo macchina.
Collocamento di un’estremità del tubo sulla pistola
Un’estremità del tubo ad alta pressione si innesta sotto l’impugnatura della pistola. Per il distacco bisogna premere il pulsante di sblocco.
Inserimento del tubo per nebulizzare nella sua sede
Il tubo per nebulizzare si inserisce a scatto nella sede della pompa a bassa pressione.
Collocazione del serbatoio
Grazie al serbatoio integrato, posto sul retro dell’idropulitrice DHS Series 2.A, l’utilizzo del detergente (oppure del sanificante o diserbante) è agevole.
Possibilità di bloccare la posizione della lancia nebulizzante
La lancia nebulizzante può essere bloccata in posizione di apertura tramite una levetta.
Maneggevolezza del tubo
Il tubo ad alta pressione, lungo 6 metri, è molto morbido e si riesce a sistemare con facilità nell’avvolgitubo statico dotato di manovella.
Possibilità di raccogliere il cavo di alimentazione
Sul fianco della macchina c’è una fibbia per tenere raccolto il cavo di alimentazione.
Alloggiamento della lancia
Sul retro c’è la sede per la testina e una nicchia in cui trova alloggiamento la lancia con contenitore detergente.
Innesto del tubo ad alta pressione
Il tubo ad alta pressione si innesta nel raccordo frontale dell’idropulitrice DHS Series 2.A.
Il Fuorisalone, l’evento spontaneo diffuso che, come consuetudine, si svolgerà a Milano dal 5 al 10 settembre 2021 in concomitanza con il Salone del Mobile, vedrà il ritorno di The Playful Home, una casa ricreata in un loft da 220 metri quadrati realizzato nell’ex cappellificio di via Savona 33 che il pubblico potrà esplorare per conoscere i nuovi modi di abitare gli spazi domestici.
Ideata da The Playful Living, una piattaforma di co-progettazioni che pone al centro la famiglia e, in particolare l’approccio alla vita quotidiana da parte del bambino, The Playful Home, la Casa del PresenteFuturo, è un’abitazione da vivere e scoprire, dedicata a una famiglia immaginaria composta dai genitori e tre figli di 1, 4 e 12 anni, nonché a tutti gli amici e parenti che vi gravitano intorno. Presenta una visione dell’abitare flessibile e al tempo stesso concreta, tra arredi, complementi e servizi pensati per una famiglia contemporanea allo scopo di incentivare i rapporti virtuosi che portano a un corretto sviluppo: sostenibilità, benessere, biofilia, creatività e attitudine all’ironia. Infatti, tutto ciò che è racchiuso nello spazio in cui si vive stimola la creatività, il gioco e l’interazione tra le persone, sia nei bambini sia negli adulti.
Lo spazio, insieme ai prodotti di aziende del mondo del design, dei giochi e del verde, sarà animato da talk-show e laboratori aperti a tutte le età: oltre a un calendario di appuntamenti per professionisti e non, su tematiche legate alle famiglie e all’evoluzione degli spazi abitativi, nelle sei giornate di apertura al pubblico ci saranno anche laboratori creativi per bambini. Il progetto The Playful Home, La Casa del PresenteFuturo, è realizzato in collaborazione con il laboratorio di ricerca CILAB (Creative Industries Lab) del Politecnico di Milano e con il Master Internazionale Design for Kids & Toys di Poli.Design.
Partner di progetto: Bosa, Cappellini, Clei, Compo, Dal Negro, Erbesi, Italtrike, Jannelli e Volpi, Little Tikes, Moretti Compact, Mosaico Digitale, My Air Pure, Nuna, Pergo.
Chi vive in città, soprattutto in questo periodo in cui il caldo aumenta a dismisura a causa dei condizionatori, dei motori delle auto, dell’accumulo dell’asfalto e delle pareti esterne degli edifici che non riescono a rinfrescarsi neanche di notte, sa quanto la presenza di un po’ di verde sia una cosa auspicabile per il miglioramento del microclima locale. Tra le tendenze che si stanno sviluppando da tempo ci sono gli orti urbani che nascono anche in luoghi impensabili come il terminal 5 dell’aeroporto JFK, dove è stato realizzato il primo orto aeroportuale, nato grazie al progetto di una compagnia aerea americana, la JetBlue, con la consulenza di un team di esperti giardinieri e botanici di GrowNYC; il rischio di creare un habitat che avrebbe potuto attirare stormi di volatili pericolosi per il traffico aereo è stato risolto non inserendo nella coltivazione tutte quelle piante come pomodori, girasoli e luppolo che attirano gli uccelli.
Gli orti urbani non sono certo una novità: da quando la nostra società è diventata industriale, periodicamente in tempo di crisi, si è fatto ritorno alla terra. Negli Stati Uniti, durante la Grande Depressione, il presidente Franklin Delano Roosevelt rilanciò la coltivazione in ambiente urbano dando in appalto appezzamenti di terra ai disoccupati e alle famiglie povere. Durante la seconda guerra mondiale la pratica divenne assai diffusa in tutta Europa: in Inghilterra comparvero i Victory gardens, giardini dismessi, parchi abbandonati utilizzati per produrre ortaggi per le famiglie urbane. Così anche in Italia ci furono gli orti guerra, nati ovunque anche nel centro delle grandi città, documentati dalle immagini del foro Romano e di piazza Venezia nella capitale trasformati in campi di grano. Oggi la realizzazione di orti urbani ha anche un’altra valenza che si aggiunge al piacere e l’utilità di coltivare, raccogliere e mangiare verdura fresca: questo è un sistema “green” per riqualificare aree urbane degradate, per migliorare la qualità della vita, per promuovere il riciclo dei rifiuti organici poi utilizzabili come concimi. Se anche voi siete amanti di frutta e verdura autoprodotte, su questo numero troverete tutte le dritte per coltivare pomodori, carote, cibi abbronzanti particolarmente indicati in questa stagione o frutti ricercati come il prugnolo.
Un tavolo taverna fai da te si costruisce con spesse tavole di abete giuntate in costa con spine di faggio, unendo gambe e fascia laterale con quattro piastre di ferro fatte ad hoc
La tavernetta è un luogo conviviale in cui si radunano spesso amici in quantità con cui condividere allegria e “buona tavola”. Proprio in merito a questo, compatibilmente con lo spazio a disposizione, bisogna che tutti trovino posto a sedere e, ovviamente, con una certa comodità. Un tavolo taverna diventa elemento di primaria importanza: deve essere ampio e robusto, spesso va calcolato proprio per le massime dimensioni in lunghezza, lasciando ai due capotavola soltanto il dovuto margine di manovra per chi deve passare e muoversi dietro i loro schienali. Solo per caso si può trovare un tavolo taverna di misura giusta per la propria tavernetta, quindi la soluzione migliore è costruirselo fai da te. Così ha fatto il nostro lettore Nicoletto Marte, che in questo articolo ci illustra i passi salienti della costruzione di un tavolo taverna fai da te. Non sono stati trascurati i principi fondamentali di estensione e robustezza anticipati sopra, ma neppure quello imprescindibile dell’estetica, che deve risultare consona all’ambiente; si è badato al sodo usando legno economico, ma c’è stata molta cura per renderlo rustico e dargli quell’aspetto “vissuto” che merita.
Cosa serve per costruire un tavolo taverna fai da te:
Tavole piallate di abete spessore 50 mm: 2 pezzi da 250×1860 mm, 2 pezzi da 125×1860 mm, 1 pezzo da 70×1860 mm, 2 pezzi da 70×2000;
tavole piallate di abete spessore 28 mm: 2 pezzi da 1740×120 mm, 2 pezzi da 700×120 mm;
travetti sezione 80×80 mm: 4 pezzi lunghi 750 mm;
materiali per assemblaggio: spine di faggio Ø 10 mm, colla vinilica D2, viti da legno Ø 5×35 mm testa svasata;
Il tavolo taverna risulta molto ben proporzionato nei suoi elementi: con lunghezza di 2 metri e larghezza circa di 1 metro.
Lo spessore del piano d’appoggio di 50 mm è perfetto, soprattutto in considerazione del legno scelto e dello stile attribuito al manufatto.
Stessa considerazione per l’altezza delle fasce laterali di irrobustimento, che vanno in battuta di testa all’estremità alta delle gambe con sezione quadrata 80×80 mm.
Le tavole di abete spesse 50 mm e i pali quadrati 80×80 mm sono acquistati in un grande centro di bricolage dove, essendo gratuito il taglio, sono stati portati a giusta lunghezza seguendo la traccia del progetto.
Le giunzioni delle tavole per comporre il piano del tavolo e quelle delle altre parti sono effettuate con spine di faggio e colla vinilica.
Giunzione delle tavole del piano
Le tavole di abete devono essere di tipo piallato, per poter contare su superfici perfettamente lisce e squadrate, in modo da poterne unire in costa un certo numero per realizzare il piano del tavolo taverna (vedere schema di giunzione nel disegno sopra). Avendo scelto il sistema di giunzione con spine di faggio, si praticano prima i fori per le spine sulla costa di una tavola; per questa operazione la cosa migliore è usare una guida per spinatura che permette di effettuare il foro esattamente nel centro dello spessore della tavola.
Parte importante del risultato stilistico del tavolo è l’aspetto “vissuto” delle singole tavole; in questo caso non interessa ottenere una superficie liscia e continua del piano, anzi si vuole rendere ben marcata e netta la distinzione fra l’una e l’altra. Quindi, prima di eseguire la giunzione con l’incollaggio, si smussa lo spigolo fra l’una e l’altra passando la lama di uno scalpello con un’angolazione di circa 45°. Facendo il lavoro a mano con lo scalpello lo smusso non viene molto regolare e questo è proprio il risultato ricercato.
La stessa manovra va fatta anche sugli spigoli di testa delle tavole, dove il risultato è differente perché si prendono le fibre al traverso e diventa molto più difficile mantenere regolare l’affondo dello scalpello; ma anche in questo caso, l’effetto torna a vantaggio del risultato.
Per effettuare i fori sulla seconda tavola di ogni giunzione si inseriscono i marcatori di rame nei fori effettuati nella prima, si affiancano le tavole appoggiate su un piano regolare e si dà un colpetto con un martello di gomma a una delle due, tenendo ferma l’altra. Fatti i fori, vi si inserisce qualche goccia di colla vinilica e si inseriscono le spine di faggio; si spalma colla anche su una delle due facce di contatto e, completato il piano, lo si mette in pressione laterale in modo da tenere fortemente unite le tavole.
La finitura del tavolo è fatta con la stesura di una mano di impregnante protettivo; una volta essiccato si dà una leggera passata con carta vetrata fine e si stendono un paio di mani di flatting trasparente.
Staffatura delle gambe del tavolo taverna
Per rendere più salde e robuste le giunzioni fra gambe, piano e fasce laterali, se non si trovano staffe già pronte allo scopo, si realizzano quattro piastre sagomate, usando una piattina d’acciaio da 2 mm di spessore tagliata e piegata ad hoc. La costruzione di pezzi di questo genere, tutto sommato, non presenta particolari difficoltà, se non il fatto che mentre si saldano i singoli (qui spieghiamo nel dettaglio come saldare) elementi bisogna che siano perfettamente bloccati a 90° l’uno con l’altro.
La particolare forma delle piastre permette di abbracciare due lati della gamba e nel contempo trovare corrispondenza e dare scontro sia alla fascia laterale, da un lato e dall’altro, sia al piano del tavolo, fornendogli un’ampia superficie di supporto. Nelle piastre va praticata una serie di fori per un adeguato fissaggio con viti da legno; nel settore dove le viti risultano convergenti, i fori sono posizionati in modo asimmetrico per evitare che le viti possano interferire una con l’altra nell’applicazione.
Morsetti fai da te
Altri elementi autocostruiti, ma questa volta si tratta di attrezzi riutilizzabili in altre occasioni, sono i lunghi morsetti fai da te indispensabili per mettere in pressione le assi una volta assemblate con spine e colla per comporre il piano del tavolo. Ogni morsetto è composto da due lunghe barre filettate da 10 mm di diametro di misura maggiore di una quindicina di centimetri rispetto alla larghezza del piano da ottenere.
Per ogni morsetto si tagliano due pezzi di tavola di buono spessore (possono essere ricavati da scarti delle tavole da 50 mm usate per il piano). Poi si praticano due fori con una punta da 10 mm di diametro montata sul trapano a colonna in modo da effettuarli perfettamente perpendicolari.
Le barre si inseriscono nei fori dei due blocchetti di legno; uno rimane a un’estremità e uno all’altra delle barre, che vanno terminate con grosse rondelle e dadi autobloccanti da una parte e normali dall’altra (dove vengono tirati quando in posizione).
I tre morsetti si posizionano ben distanziati nel piano del tavolo da mettere in pressione e si tirano i dadi progressivamente; contestualmente si applicano anche due coppie di travetti di legno di buono spessore con strettoiche impediscono alle tavole di imbarcarsi sotto la pressione dei tre morsetti.
Sempre piuttosto criptica la nostra burocrazia, sia che si tratti di interpretare le disposizioni, sia che si tratti dell’utilizzo di parole assolutamente al di fuori delle conoscenze dei più: il significato di collabenti, riferito a edifici, fino a poco tempo fa, era appannaggio solo dei professionisti. In realtà anche se si consulta il dizionario Treccani la parola non risulta, si tratta di un termine da dizionario fiscale utilizzato nelle classificazioni catastali per indicare un edificio che non produce reddito e con determinate caratteristiche. Se la burocrazia volesse essere meno antipatica ai cittadini, ci sarebbero tanti sinonimi per renderne subito chiaro il significato: edificio diroccato, non agibile, cadente, in rovina.
Ma torniamo al punto di cui ci interessa parlare, ovvero il SUPERBONUS 110% che ci consente di ricostruire o riqualificare gli edifici che ricadano in questa categoria con contributi davvero interessanti (ma per questo potete leggere l’articolo da pagina 78): il dato da sottolineare, peraltro riscontrabile andando in giro per l’Italia, è che, secondo il censimento del Centro studi casa ambiente territorio (Cescat), ci sarebbero oltre 2 milioni di edifici, il 6% del patrimonio immobiliare nazionale, che sta andando in rovina. Ovvero 50mila tra palazzi, ville e castelli nobiliari in stato di abbandono e la bellezza di 20mila tra edifici ecclesiastici, chiese, abbazie e conventi in disuso. Che fanno compagnia a 130mila strutture industriali, vecchie fabbriche e capannoni, vale a dire qualcosa come 10mila km quadrati occupati da immobili abbandonati (dati ISPRA). Numeri importanti, che logicamente dovrebbero portare a dare priorità al recupero di questi immobili, in buona parte con valenze architettoniche, o quanto meno al recupero del suolo da essi occupato piuttosto che a nuove costruzioni su altro terreno reso edificabile. La situazione, però, è la seguente: a una diminuzione delle nascite (nel 2019 sono nati 420mila bambini) corrisponde un aumento della cementificazione, abbiamo consumato 57 milioni di metri quadrati di suolo, al ritmo di 2 metri quadrati al secondo. È come se ogni bambino che nasce portasse con sé ben 135 metri quadrati di cemento. Nelle città è in pericolo la capacità di resilienza ai cambiamenti climatici, con il peggioramento della qualità della vita e della sicurezza degli abitanti a causa della perdita di permeabilità del territorio, fondamentale per mitigare fenomeni di dissesto. In campagna sono a rischio intere produzioni alimentari.
Alla luce di questi dati è incontestabile che la strada per cambiare direzione è dire stop al consumo del suolo, da troppo la politica ne parla, ma per resistenze e motivi clientelari il divieto non è ancora legge nazionale, e dare il via al recupero degli edifici collabenti, in buona parte compito dei privati, in questo caso motivati, oltre che dall’amore per il proprio Paese, anche dal vantaggio del cospicuo bonus riconosciuto dallo Stato per queste operazioni.
Realizziamo dei fiori cristallizzati per abbellire cornici, specchi, scrigni, bauletti e oggetti da regalo. Ci serviranno dei fiori finti di carta, di stoffa o di plastica, ravvivati con vernici speciali con effetto indurente e cristallizzante
Realizzare dei fiori cristallizzati per abbellire cornici e quadretti è molto semplice e occorrono davvero pochi attrezzi. La cornice che si intende abbellire, le foglie e i fiori finti con cui creare la decorazione: questo è quanto occorre per eseguire il lavoro. Come attrezzi bastano un pennello, una spatolina e la pistola incollatrice. I prodotti si acquistano nei negozi di belle arti o su internet e vanno dal primer alla vernice cristallizzante, dai colori acrilici ai glitter, dalla foglia oro agli effetti perlacei.
Tempo richiesto: 10 minuti
Stendere sui petali una pittura indurente
Stendiamo sui petali di carta o di stoffa dei fiori finti una pittura indurente. Il primer è necessario per vetro e superfici lisce e non porose: costituisce il fondo che permette di ottenere un ancoraggio molto forte del colore.
Stendere la vernice cristallizzante
Coloriamo i bordi dei fiori e stendiamo la vernice cristallizzante su tutta la loro superficie.
Posiamo i glitter
Sulla vernice fresca posiamo con delicatezza i glitter argentati.
Fissare i fiori sulla cornice
Fissiamo con un punto di colla a caldo i fiori e le foglie nell’angolo della cornice.
Fiori eduli per decorare frullati e torte
Capita sempre più spesso che un piatto servitoci al ristorante sia decorato con fiori: la regola vuole che tutto ciò che c’è nel piatto sia commestibile e che quindi anche quei fiori siano eduli (rose, viole, margherite, denti di leone lo sono, mentre quelli dell’ortensia, per esempio, sono velenosi). Se vogliamo decorare torte, frullati, gelati e altri dessert con piccoli fiori, possiamo scegliere di cristallizzarli con una tecnica davvero semplice, ricordando che i fiori vanno maneggiati con cura, non stropicciati, lavati e asciugati con carta assorbente. Serve albume d’uovo da sbattere finché faccia una leggera schiuma (non va montato a neve!).
Si intinge un pennello nell’albume e si spennellano delicatamente tutti i petali del fiore. In un piattino avremo preparato dello zucchero semolato molto fine su cui appoggiare il fiore cospargendo in ogni parte. Scrolliamo via lo zucchero in eccesso e mettiamo il fiore su una griglia, in luogo aerato, lontano da fonti di calore e dalla luce del sole: dopo due giorni sarà perfettamente cristallizzato.
Un impastatrice fai da te costruita con parecchio materiale di recupero, prepara fino a 6 kg di morbido impasto per panificazione o 2 kg di sodo impasto per paste fresche
Lui lavora in Barilla e in casa sua moglie e sua suocera impastano parecchio, sia pane e pizze sia paste fresche d’ogni genere. Ma naturalmente impastare a mano è faticoso. Così un giorno, il nostro lettore Ennio Sozzi ha sfruttato l’opportunità offertagli dal lavoro e iniziato a studiare attentamente com’è fatta e come funziona una macchina impastatrice.
Avendo da anni la passione di costruire oggetti di meccanica, gli era infatti venuta l’idea di realizzarne una impastatrice fai da te. E così ha poi fatto, utilizzando pezzi di recupero dei più vari più un motore e quattro ruote nuovi, risparmiando, con il suo lavoro, quasi 1000 euro (le impastatrici per uso domestico costano a partire da poco 800 euro).
Soluzioni tecniche per costruire una impastatrice
In evidenza l’aspo dell’impastatrice fai da te
Volendo trasmettere il moto con delle catene, per poterle mettere in tensione occorre che i vari pezzi (motore e sistemi di movimentazione dell’aspo e della vasca) siano ancorati all’intelaiatura con un sistema che permetta spostamenti, qui ottenuto per mezzo di spezzoni a L con fori ad asola, bloccati per mezzo di bulloni e dadi. Affinché l’impasto non formi una palla attaccata all’aspo (così si chiama la spirale o il ferro a C che, ruotando, rigira gli ingredienti), serve un robusto ferro rompi impasto, ottenuto con una spranga verticale fissata all’intelaiatura in posizione scentrata rispetto alla vasca. Inoltre, anche la vasca che contiene l’impasto deve girare, ma molto più lentamente dell’aspo.
Entrambi sono messi in moto dal perno che esce dal rid
uttore, la cui la velocità di rotazione è ulteriormente ridotta, in maniera differenziata per l’uno e l’altra, con corone da ciclomotore e da motocicletta di diverso diametro. Il perno che trasmette il moto richiede, oltre all’ancoraggio all’intelaiatura fornito dal riduttore, anche un altro punto fisso, che è ottenuto con un cuscinetto aggiuntivo calzato in alto sul perno stesso e fissato artigianalmente alla struttura portante.
I sistemi di movimentazione della vasca e dell’aspo sono formati, ciascuno, da un perno con le corone indotte spinate alle estremità, ancorato alla struttura per mezzo di un pezzo di tubo che lo avvolge, lasciandolo libero di ruotare grazie a due cuscinetti interni. L’aspo stesso della impastatrice fai da te è uno spezzone di robusto tondino d’acciaio curvato con sistemi artigianali dopo averlo intaccato in più punti per indebolirlo.
La curva è studiata in modo che raggiunga il contorno interno del fondo della vasca. L’accesso alle parti in movimento è impedito da una griglia di protezione che provvede a inserire e disinserire un micron di sicurezza: alzando la griglia si arresta immediatamente l’impastatrice. Nello spazio libero sopra il motore è alloggiato un cassetto, utile per contenere oggetti per la pulizia della macchina.
In un perfetto gioco di molecole che si attirano o si respingono interviene l’adesivo tessendo una fitta rete di legami. Analisi fisica alla base del funzionamento di una colla
Cercando di descrivere in soldoni e in modo comprensibile a tutti il meccanismo alla base del quale una colla svolge la funzione per cui è nata, bisogna far riferimento alla forza che la lega alle molecole di un determinato materiale: se la scodella rimane scodella, e le molecole che la compongono non se ne vanno a spasso per la cucina, vuol dire che esiste un forte legame di…parentela che le convince a rimanere unite e compatte.
Attrazione verso l’esterno
Quelle che rimangono in prossimità della superficie, affacciandosi sul mondo circostante, sono però portate ad esercitare una parte della loro attrazione verso l’esterno e, in misura diversa a seconda delle sostanze, cercano di attirare molecole appartenenti ad altre famiglie: se l’acqua viene assorbita dalla stoffa vuol dire che l’attrazione molecolare di quest’ultima è superiore alla forza che lega le molecole della prima; quando un oggetto si rompe cadendo, vuol dire che la forza dell’urto è stata superiore a quella che legava le molecole.
Rimettere assieme i cocci e sperare che le molecole si attirino e si leghino di nuovo in maniera spontanea è del tutto illusorio perché, a causa della rottura, alcune di esse si sono rotte o disperse: sui lembi dei vari pezzi, inoltre, si sono depositati il pulviscolo e l’umidità atmosferica, che creano una sorta di barriera. Che fare per colmare i vuoti e ristabilire il legame? Ci servirebbe un…”qualcosa” dalle caratteristiche molto particolari: dapprima dotato di un legame molecolare molto debole, in modo da essere attratto e in qualche modo assorbito dalle superfici, ma capace poi di sviluppare un legame molecolare molto forte, in modo da realizzare una riparazione perfetta.
Questa sostanza è ovviamente la colla, ed il cambiamento di…carattere (da debole a forte o fortissima) avviene grazie al meccanismo di reticolazione o, per dirla in modo più semplice, di indurimento.
Materiali porosi o impermeabili
Per scegliere la colla più adatta al nostro scopo dobbiamo, in via preliminare, prendere in considerazione la natura delle superfici su cui ci dobbiamo ancorare, per sfruttarne a nostro vantaggio le caratteristiche: da questo deriva che è sempre più facile unire due pezzi dello stesso materiale (poroso o no), perché possiamo contare su un identico comportamento nei confronti dell’adesivo. In caso di incollaggi eterogenei (ad esempio legno e metallo) si tratterà di trovare il miglior compromesso possibile, tenendo anche conto di altre esigenze come il tempo di presa, la resistenza alla fatica ed agli agenti atmosferici, ecc.
Materiali rigidi o flessibili
Determinati oggetti, come ad esempio le scarpe, sono soggetti a continue flessioni durante l’uso: se incollassimo la suola con un adesivo molto efficace, ma che una volta indurito crea un film rigido, avremmo trasformato le nostre calzature in un… paio di zoccoli. Il discorso è del tutto diverso, invece, se dobbiamo assemblare le parti di un mobile in legno: potremo avere nel tempo piccolissime variazioni di dimensione dovute alla temperatura ed al grado di umidità dell’ambiente, ma il tutto rimane sostanzialmente un blocco monolitico. Il grado di rigidità del materiale e le sollecitazioni che deriveranno dall’uso sono quindi un ulteriore elemento di cui bisogna necessariamente tenere conto.
Materiali combacianti o sconnessi
Dato per scontato che una colla lavora al meglio se viene erogata in bassi spessori, resta il fatto che deve creare un legame indissolubile tra i pezzi da unire: se questi combaciano alla perfezione (nelle applicazioni pratiche succede molto di rado) potremo usare un prodotto molto fluido mentre, se ci sono dei vuoti (per quanto microscopici) da colmare, avremo bisogno di un adesivo più consistente. Quando i pezzi da unire non sono combacianti, però, si ha il vantaggio che la superficie reale su cui la colla può fare presa è molto superiore a quella teorica.
Impossibili da incollare
Se un determinato materiale ha un’attrazione di superficie molto bassa, sarà difficile trovare una sostanza con una forza ancora inferiore, che possa quindi legarsi alla prima: ecco perché alcuni materiali come il polietilene, il polipropilene o il teflon risultano impossibili da incollare con i consueti adesivi (non per nulla il teflon viene usato per rivestimenti antiaderenti, ad esempio sul fondo delle padelle …).
Come dei bottoni
Se paragoniamo le molecole di colla a dei bottoni ed il meccanismo di reticolazione ad un filo che progressivamente attraversa i diversi fori, ci rendiamo conto del fatto che il legame, dapprima debole, diventa sempre più solido man mano che il nostro filo continua a passare tra i fori, fino a che li ha interessati tutti. Morale della favola: per quanto apparentemente robusto, un incollaggio non va mai sollecitato subito, anche se si tratta di un adesivo di tipo “istantaneo”. Nel mondo delle colle esistono poche regole senza eccezioni, salvo questa: il tempo di presa apparente non coincide mai con quello reale, ma è sempre notevolmente più lungo. Anche i collanti cosiddetti “a contatto”, usati ad esempio per incollare il cuoio, hanno bisogno di circa 24 ore per dare il massimo delle prestazioni
La presa iniziale della colla
La forza sviluppata dall’adesivo al momento dell’incollaggio (o subito dopo) dipende dalla rapidità con cui avviene la prima fase della reticolazione o, per stare al nostro esempio, da quante passate di filo attraversano i bottoni che simboleggiano le molecole. I pezzi stanno insieme, ma…
Tenuta finale della colla
La giunzione offre il massimo della resistenza solo dopo che il processo di reticolazione è terminato, ed i nostri bottoni formano una solida catena. La scelta di privilegiare la tenuta iniziale o quella finale, in funzione della destinazione d’uso dell’adesivo, influisce sulla formulazione chimica.
La resistenza dell’incollaggio passa dal valore iniziale minimo (che può anche essere elevato) a quello massimo entro un determinato arco di tempo.
La bagnabilità di una colla
Volendo ricreare un legame tra i componenti di una famiglia separati da un evento traumatico (la famosa scodella che cade e si rompe) o stabilire una nuova parentela tra due famiglie simili (legno con legno, ferro con ferro, ecc,) o addirittura diverse (legno e muro, plastica e ceramica, ecc.), la colla non può restare fuori della porta, appoggiandosi soltanto sulla superficie: la capacità di penetrare all’interno del materiale e di creare i presupposti per un’ottima presa viene appunto definita “bagnabilità”.
Stendere la colla con il pennello
Restando tra il serio ed il faceto, potremmo dire che le setole del pennello fanno il solletico alle molecole e, mettendole di buon umore, le rendono disposte ad accogliere la colla come gradito ospite; in realtà ogni singola setola esercita una pressione forte e progressiva, che fa penetrare l’adesivo.
Stendere la colla con la spatola
Con tutti quei denti sembra un tantino aggressiva ma, proprio grazie alla… dentatura, ha il vantaggio di creare un film di spessore uniforme, pareggiando le eccedenze e colmando i vuoti: basta scegliere la spatola adatta e manovrarla nel modo corretto per stendere in fretta la giusta quantità di prodotto.
In definitiva è fondamentale utilizzare una colla specifica per un utilizzo specifico: la gamma di colle proposta da Pattex Henkel risponde a questa specifica esigenza.
Colla industriale di ultima generazione, composizione migliorata, made in Germany.
Colla per legno, metallo, alluminio, porcellana, ceramica, gomma, teloni, plastica, vetro, pelle (scarpe), pietra, marmo, PVC, EPP, ABS, PMMA.
La colla per i professionisti del fai da te (es. modellismo, riparazioni auto, campeggio, casa, tempo libero, riparazioni elettriche, ecc.),per incollare, per esempio, legno e metallo o plastica.
La superficie incollata rimane trasparente ed elastica.
Contenuto: colla industriale HG-Extreme 1.0, 20 g.