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Idropulitrice DHS Series 2.A | Annovi Reverberi

Grazie alla presenza di due pompe è possibile usare l’idropulitrice DHS Series 2.A in modalità nebulizzazione o lavaggio ad alta pressione

Una pompa a bassa pressione (Spraying Pump) collegata a una lancia per la nebulizzazione e una pompa ad alta pressione (Washing Pump) collegata a una lancia per il lavaggio: 2 strumenti in uno con cui, per passare da una modalità di lavoro all’altra, è sufficiente ruotare un interruttore e cambiare lancia. Stiamo parlando della DHS Series 2.A, l’innovativa idropulitrice ad alta pressione di Annovi Reverberi, che può essere adoperata per la nebulizzazione di prodotti (detergenti, disinfestanti, sanificanti) e per il lavaggio forte o delicato sulle superfici in esterni. Il tutto senza complicate operazioni: bastano pochi secondi per sostituire la lancia. La macchina, infatti, è provvista di 2 lance, una per la nebulizzazione e una per il lavaggio. A quella per il lavaggio può essere collegata la testina a getto rotante, in grado di rimuovere lo sporco più ostinato, oppure la testina a getto regolabile, per una pulizia più delicata.

La modalità nebulizzazione (Spraying Mode) è perfetta per sanificare aree e oggetti esterni, disinfestare il giardino dalle zanzare, distribuire prodotti fitosanitari sulle piante oppure effettuare il prelavaggio di superfici particolarmente sporche, come l’automobile.
Modalità lavaggio (Washing Mode): la funzionalità tradizionale presente in ogni idropulitrice ed è necessaria per rimuovere lo sporco più ostinato o risciacquare in modo rapido il detergente.

Detergenti ma non solo

Il serbatoio situato nel retro è utilizzabile con tutte le funzioni della macchina. I detergenti possono essere usati con la pompa ad alta pressione per le parti più sporche dell’autovettura, ma anche con quella a bassa pressione per il lavaggio del motore o di complementi per esterni delicati. In alternativa, prodotti sanificanti, fitosanitari o disinfestanti, vanno assolutamente utilizzati con la pompa a bassa pressione.

Filtro, lance e tubi ad alta pressione

  • Applicazione del filtro

    Si avvita alla presa di alimentazione dell’acqua il filtro, trasparente e ispezionabile, in grado di bloccare le impurità che altrimenti entrerebbero nel corpo macchina.

  • Collocamento di un’estremità del tubo sulla pistola

    Un’estremità del tubo ad alta pressione si innesta sotto l’impugnatura della pistola. Per il distacco bisogna premere il pulsante di sblocco.

  • Inserimento del tubo per nebulizzare nella sua sede

    Il tubo per nebulizzare si inserisce a scatto nella sede della pompa a bassa pressione.

  • Collocazione del serbatoio

    Grazie al serbatoio integrato, posto sul retro dell’idropulitrice DHS Series 2.A, l’utilizzo del detergente (oppure del sanificante o diserbante) è agevole.

  • Possibilità di bloccare la posizione della lancia nebulizzante

    La lancia nebulizzante può essere bloccata in posizione di apertura tramite una levetta.

  • Maneggevolezza del tubo

    Il tubo ad alta pressione, lungo 6 metri, è molto morbido e si riesce a sistemare con facilità nell’avvolgitubo statico dotato di manovella.

  • Possibilità di raccogliere il cavo di alimentazione

    Sul fianco della macchina c’è una fibbia per tenere raccolto il cavo di alimentazione.

  • Alloggiamento della lancia

    Sul retro c’è la sede per la testina e una nicchia in cui trova alloggiamento la lancia con contenitore detergente.

  • Innesto del tubo ad alta pressione

    Il tubo ad alta pressione si innesta nel raccordo frontale dell’idropulitrice DHS Series 2.A.

The Playful Home al Fuorisalone: una vera abitazione con soluzioni d’arredo pensate per le famiglie del terzo millennio

Il Fuorisalone, l’evento spontaneo diffuso che, come consuetudine, si svolgerà a Milano dal 5 al 10 settembre 2021 in concomitanza con il Salone del Mobile, vedrà il ritorno di The Playful Home, una casa ricreata in un loft da 220 metri quadrati realizzato nell’ex cappellificio di via Savona 33 che il pubblico potrà esplorare per conoscere i nuovi modi di abitare gli spazi domestici.

Ideata da The Playful Living, una piattaforma di co-progettazioni che pone al centro la famiglia e, in particolare l’approccio alla vita quotidiana da parte del bambino, The Playful Home, la Casa del PresenteFuturo, è un’abitazione da vivere e scoprire, dedicata a una famiglia immaginaria composta dai genitori e tre figli di 1, 4 e 12 anni, nonché a tutti gli amici e parenti che vi gravitano intorno. Presenta una visione dell’abitare flessibile e al tempo stesso concreta, tra arredi, complementi e servizi pensati per una famiglia contemporanea allo scopo di incentivare i rapporti virtuosi che portano a un corretto sviluppo: sostenibilità, benessere, biofilia, creatività e attitudine all’ironia. Infatti, tutto ciò che è racchiuso nello spazio in cui si vive stimola la creatività, il gioco e l’interazione tra le persone, sia nei bambini sia negli adulti.

Lo spazio, insieme ai prodotti di aziende del mondo del design, dei giochi e del verde, sarà animato da talk-show e laboratori aperti a tutte le età: oltre a un calendario di appuntamenti per professionisti e non, su tematiche legate alle famiglie e all’evoluzione degli spazi abitativi, nelle sei giornate di apertura al pubblico ci saranno anche laboratori creativi per bambini. Il progetto The Playful Home, La Casa del PresenteFuturo, è realizzato in collaborazione con il laboratorio di ricerca CILAB (Creative Industries Lab) del Politecnico di Milano e con il Master Internazionale Design for Kids & Toys di Poli.Design.

Partner di progetto: Bosa, Cappellini, Clei, Compo, Dal Negro, Erbesi, Italtrike, Jannelli e Volpi, Little Tikes, Moretti Compact, Mosaico Digitale, My Air Pure, Nuna, Pergo.

Coltivare ortaggi anche in aeroporto

Tratto da “In Giardino n.73 – Luglio/Agosto”

Autore: Nicla de Carolis

Chi vive in città, soprattutto in questo periodo in cui il caldo aumenta a dismisura a causa dei condizionatori, dei motori delle auto, dell’accumulo dell’asfalto e delle pareti esterne degli edifici che non riescono a rinfrescarsi neanche di notte, sa quanto la presenza di un po’ di verde sia una cosa auspicabile per il miglioramento del microclima locale. Tra le tendenze che si stanno sviluppando da tempo ci sono gli orti urbani che nascono anche in luoghi impensabili come il terminal 5 dell’aeroporto JFK, dove è stato realizzato il primo orto aeroportuale, nato grazie al progetto di una compagnia aerea americana, la JetBlue, con la consulenza di un team di esperti giardinieri e botanici di GrowNYC; il rischio di creare un habitat che avrebbe potuto attirare stormi di volatili pericolosi per il traffico aereo è stato risolto non inserendo nella coltivazione tutte quelle piante come pomodori, girasoli e luppolo che attirano gli uccelli.

Gli orti urbani non sono certo una novità: da quando la nostra società è diventata industriale, periodicamente in tempo di crisi, si è fatto ritorno alla terra. Negli Stati Uniti, durante la Grande Depressione, il presidente Franklin Delano Roosevelt rilanciò la coltivazione in ambiente urbano dando in appalto appezzamenti di terra ai disoccupati e alle famiglie povere. Durante la seconda guerra mondiale la pratica divenne assai diffusa in tutta Europa: in Inghilterra comparvero i Victory gardens, giardini dismessi, parchi abbandonati utilizzati per produrre ortaggi per le famiglie urbane. Così anche in Italia ci furono gli orti guerra, nati ovunque anche nel centro delle grandi città, documentati dalle immagini del foro Romano e di piazza Venezia nella capitale trasformati in campi di grano. Oggi la realizzazione di orti urbani ha anche un’altra valenza che si aggiunge al piacere e l’utilità di coltivare, raccogliere e mangiare verdura fresca: questo è un sistema “green” per riqualificare aree urbane degradate, per migliorare la qualità della vita, per promuovere il riciclo dei rifiuti organici poi utilizzabili come concimi. Se anche voi siete amanti di frutta e verdura autoprodotte, su questo numero troverete tutte le dritte per coltivare pomodori, carote, cibi abbronzanti particolarmente indicati in questa stagione o frutti ricercati come il prugnolo.

Tavolo taverna fai da te | Costruzione illustrata passo-passo

Un tavolo taverna fai da te si costruisce con spesse tavole di abete giuntate in costa con spine di faggio, unendo gambe e fascia laterale con quattro piastre di ferro fatte ad hoc

La tavernetta è un luogo conviviale in cui si radunano spesso amici in quantità con cui condividere allegria e “buona tavola”. Proprio in merito a questo, compatibilmente con lo spazio a disposizione, bisogna che tutti trovino posto a sedere e, ovviamente, con una certa comodità. Un tavolo taverna diventa elemento di primaria importanza: deve essere ampio e robusto, spesso va calcolato proprio per le massime dimensioni in lunghezza, lasciando ai due capotavola soltanto il dovuto margine di manovra per chi deve passare e muoversi dietro i loro schienali. Solo per caso si può trovare un tavolo taverna di misura giusta per la propria tavernetta, quindi la soluzione migliore è costruirselo fai da te. Così ha fatto il nostro lettore Nicoletto Marte, che in questo articolo ci illustra i passi salienti della costruzione di un tavolo taverna fai da te. Non sono stati trascurati i principi fondamentali di estensione e robustezza anticipati sopra, ma neppure quello imprescindibile dell’estetica, che deve risultare consona all’ambiente; si è badato al sodo usando legno economico, ma c’è stata molta cura per renderlo rustico e dargli quell’aspetto “vissuto” che merita.

Cosa serve per costruire un tavolo taverna fai da te:

  • Tavole piallate di abete spessore 50 mm: 2 pezzi da 250×1860 mm, 2 pezzi da 125×1860 mm, 1 pezzo da 70×1860 mm, 2 pezzi da 70×2000;
  • tavole piallate di abete spessore 28 mm: 2 pezzi da 1740×120 mm, 2 pezzi da 700×120 mm;
  • travetti sezione 80×80 mm: 4 pezzi lunghi 750 mm;
  • materiali per assemblaggio: spine di faggio Ø 10 mm, colla vinilica D2, viti da legno Ø 5×35 mm testa svasata;
  • materiali per finitura: impregnante all’acqua tinta noce chiaro, vernice trasparente all’acqua satinata

Progetto tavolo taverna fai da te

tavolo taverna
Il tavolo taverna risulta molto ben proporzionato nei suoi elementi: con lunghezza di 2 metri e larghezza circa di 1 metro.

tavolo taverna
Lo spessore del piano d’appoggio di 50 mm è perfetto, soprattutto in considerazione del legno scelto e dello stile attribuito al manufatto.

Stessa considerazione per l’altezza delle fasce laterali di irrobustimento, che vanno in battuta di testa all’estremità alta delle gambe con sezione quadrata 80×80 mm.

Le tavole di abete spesse 50 mm e i pali quadrati 80×80 mm sono acquistati in un grande centro di bricolage dove, essendo gratuito il taglio, sono stati portati a giusta lunghezza seguendo la traccia del progetto.

Le giunzioni delle tavole per comporre il piano del tavolo e quelle delle altre parti sono effettuate con spine di faggio e colla vinilica.

Giunzione delle tavole del piano

Le tavole di abete devono essere di tipo piallato, per poter contare su superfici perfettamente lisce e squadrate, in modo da poterne unire in costa un certo numero per realizzare il piano del tavolo taverna (vedere schema di giunzione nel disegno sopra). Avendo scelto il sistema di giunzione con spine di faggio, si praticano prima i fori per le spine sulla costa di una tavola; per questa operazione la cosa migliore è usare una guida per spinatura che permette di effettuare il foro esattamente nel centro dello spessore della tavola.

Parte importante del risultato stilistico del tavolo è l’aspetto “vissuto” delle singole tavole; in questo caso non interessa ottenere una superficie liscia e continua del piano, anzi si vuole rendere ben marcata e netta la distinzione fra l’una e l’altra. Quindi, prima di eseguire la giunzione con l’incollaggio, si smussa lo spigolo fra l’una e l’altra passando la lama di uno scalpello con un’angolazione di circa 45°. Facendo il lavoro a mano con lo scalpello lo smusso non viene molto regolare e questo è proprio il risultato ricercato.

La stessa manovra va fatta anche sugli spigoli di testa delle tavole, dove il risultato è differente perché si prendono le fibre al traverso e diventa molto più difficile mantenere regolare l’affondo dello scalpello; ma anche in questo caso, l’effetto torna a vantaggio del risultato.

Per effettuare i fori sulla seconda tavola di ogni giunzione si inseriscono i marcatori di rame nei fori effettuati nella prima, si affiancano le tavole appoggiate su un piano regolare e si dà un colpetto con un martello di gomma a una delle due, tenendo ferma l’altra. Fatti i fori, vi si inserisce qualche goccia di colla vinilica e si inseriscono le spine di faggio; si spalma colla anche su una delle due facce di contatto e, completato il piano, lo si mette in pressione laterale in modo da tenere fortemente unite le tavole.

La finitura del tavolo è fatta con la stesura di una mano di impregnante protettivo; una volta essiccato si dà una leggera passata con carta vetrata fine e si stendono un paio di mani di flatting trasparente.

Staffatura delle gambe del tavolo taverna

Per rendere più salde e robuste le giunzioni fra gambe, piano e fasce laterali, se non si trovano staffe già pronte allo scopo, si realizzano quattro piastre sagomate, usando una piattina d’acciaio da 2 mm di spessore tagliata e piegata ad hoc. La costruzione di pezzi di questo genere, tutto sommato, non presenta particolari difficoltà, se non il fatto che mentre si saldano i singoli (qui spieghiamo nel dettaglio come saldare) elementi bisogna che siano perfettamente bloccati a 90° l’uno con l’altro.

La particolare forma delle piastre permette di abbracciare due lati della gamba e nel contempo trovare corrispondenza e dare scontro sia alla fascia laterale, da un lato e dall’altro, sia al piano del tavolo, fornendogli un’ampia superficie di supporto. Nelle piastre va praticata una serie di fori per un adeguato fissaggio con viti da legno; nel settore dove le viti risultano convergenti, i fori sono posizionati in modo asimmetrico per evitare che le viti possano interferire una con l’altra nell’applicazione.

Morsetti fai da te

Altri elementi autocostruiti, ma questa volta si tratta di attrezzi riutilizzabili in altre occasioni, sono i lunghi morsetti fai da te indispensabili per mettere in pressione le assi una volta assemblate con spine e colla per comporre il piano del tavolo. Ogni morsetto è composto da due lunghe barre filettate da 10 mm di diametro di misura maggiore di una quindicina di centimetri rispetto alla larghezza del piano da ottenere.

Per ogni morsetto si tagliano due pezzi di tavola di buono spessore (possono essere ricavati da scarti delle tavole da 50 mm usate per il piano). Poi si praticano due fori con una punta da 10 mm di diametro montata sul trapano a colonna in modo da effettuarli perfettamente perpendicolari.

Le barre si inseriscono nei fori dei due blocchetti di legno; uno rimane a un’estremità e uno all’altra delle barre, che vanno terminate con grosse rondelle e dadi autobloccanti da una parte e normali dall’altra (dove vengono tirati quando in posizione).

I tre morsetti si posizionano ben distanziati nel piano del tavolo da mettere in pressione e si tirano i dadi progressivamente; contestualmente si applicano anche due coppie di travetti di legno di buono spessore con strettoiche impediscono alle tavole di imbarcarsi sotto la pressione dei tre morsetti.

 

Edifici collabenti e amore per il nostro Paese

Tratto da “Rifare Casa n.76 – Luglio/Agosto 2021″

Autore: Nicla de Carolis

Sempre piuttosto criptica la nostra burocrazia, sia che si tratti di interpretare le disposizioni, sia che si tratti dell’utilizzo di parole assolutamente al di fuori delle conoscenze dei più: il significato di collabenti, riferito a edifici, fino a poco tempo fa, era appannaggio solo dei professionisti. In realtà anche se si consulta il dizionario Treccani la parola non risulta, si tratta di un termine da dizionario fiscale utilizzato nelle classificazioni catastali per indicare un edificio che non produce reddito e con determinate caratteristiche.
Se la burocrazia volesse essere meno antipatica ai cittadini, ci sarebbero tanti sinonimi per renderne subito chiaro il significato: edificio diroccato, non agibile, cadente, in rovina.

Ma torniamo al punto di cui ci interessa parlare, ovvero il SUPERBONUS 110% che ci consente di ricostruire o riqualificare gli edifici che ricadano in questa categoria con contributi davvero interessanti (ma per questo potete leggere l’articolo da pagina 78): il dato da sottolineare, peraltro riscontrabile andando
in giro per l’Italia, è che, secondo il censimento del Centro studi casa ambiente territorio (Cescat), ci sarebbero oltre 2 milioni di edifici, il 6% del patrimonio immobiliare nazionale, che sta andando in rovina. Ovvero 50mila tra palazzi,
ville e castelli nobiliari in stato di abbandono e la bellezza di 20mila tra edifici ecclesiastici, chiese, abbazie e conventi in disuso. Che fanno compagnia a 130mila strutture industriali, vecchie fabbriche e capannoni, vale a dire qualcosa come 10mila km quadrati occupati da immobili abbandonati (dati ISPRA). Numeri importanti, che logicamente dovrebbero portare a dare priorità al recupero di questi immobili, in buona parte con valenze architettoniche,
o quanto meno al recupero del suolo da essi occupato piuttosto che a nuove costruzioni su altro terreno reso edificabile.
La situazione, però, è la seguente: a una diminuzione delle nascite (nel 2019 sono nati 420mila bambini) corrisponde un aumento della cementificazione, abbiamo consumato 57 milioni di metri quadrati di suolo, al ritmo di 2 metri quadrati al secondo.
È come se ogni bambino che nasce portasse con sé ben 135 metri quadrati di cemento. Nelle città è in pericolo la capacità di resilienza ai cambiamenti climatici, con il peggioramento della qualità della vita e della sicurezza degli abitanti a causa della perdita di permeabilità del territorio, fondamentale per mitigare fenomeni di dissesto. In campagna sono a rischio intere produzioni alimentari.

Alla luce di questi dati è incontestabile che la strada per cambiare direzione è dire stop al consumo del suolo, da troppo la politica ne parla, ma per resistenze
e motivi clientelari il divieto non è ancora legge nazionale, e dare il via al recupero degli edifici collabenti, in buona parte compito dei privati, in questo caso motivati, oltre che dall’amore per il proprio Paese, anche dal vantaggio del cospicuo bonus riconosciuto dallo Stato per queste operazioni.

Come realizzare dei fiori cristallizzati per decorare cornici e scrigni

Realizziamo dei fiori cristallizzati per abbellire cornici, specchi, scrigni, bauletti e oggetti da regalo. Ci serviranno dei fiori finti di carta, di stoffa o di plastica, ravvivati con vernici speciali con effetto indurente e cristallizzante

Realizzare dei fiori cristallizzati per abbellire cornici e quadretti è molto semplice e occorrono davvero pochi attrezzi. La cornice che si intende abbellire, le foglie e i fiori finti con cui creare la decorazione: questo è quanto occorre per eseguire il lavoro. Come attrezzi bastano un pennello, una spatolina e la pistola incollatrice. I prodotti si acquistano nei negozi di belle arti o su internet e vanno dal primer alla vernice cristallizzante, dai colori acrilici ai glitter, dalla foglia oro agli effetti perlacei.

Tempo richiesto: 10 minuti

  1. Stendere sui petali una pittura indurente

    Stendiamo sui petali di carta o di stoffa dei fiori finti una pittura indurente. Il primer è necessario per vetro e superfici lisce e non porose: costituisce il fondo che permette di ottenere un ancoraggio molto forte del colore.

  2. Stendere la vernice cristallizzante

    Coloriamo i bordi dei fiori e stendiamo la vernice cristallizzante su tutta la loro superficie.
    fiori cristallizzati

  3. Posiamo i glitter

    Sulla vernice fresca posiamo con delicatezza i glitter argentati.

  4. Fissare i fiori sulla cornice

    Fissiamo con un punto di colla a caldo i fiori e le foglie nell’angolo della cornice.
    fiori cristallizzati fai da te

Fiori eduli per decorare frullati e torte

Capita sempre più spesso che un piatto servitoci al ristorante sia decorato con fiori: la regola vuole che tutto ciò che c’è nel piatto sia commestibile e che quindi anche quei fiori siano eduli (rose, viole, margherite, denti di leone lo sono, mentre quelli dell’ortensia, per esempio, sono velenosi). Se vogliamo decorare torte, frullati, gelati e altri dessert con piccoli fiori, possiamo scegliere di cristallizzarli con una tecnica davvero semplice, ricordando che i fiori vanno maneggiati con cura, non stropicciati, lavati e asciugati con carta assorbente. Serve albume d’uovo da sbattere finché faccia una leggera schiuma (non va montato a neve!).

Si intinge un pennello nell’albume e si spennellano delicatamente tutti i petali del fiore. In un piattino avremo preparato dello zucchero semolato molto fine su cui appoggiare il fiore cospargendo in ogni parte. Scrolliamo via lo zucchero in eccesso e mettiamo il fiore su una griglia, in luogo aerato, lontano da fonti di calore e dalla luce del sole: dopo due giorni sarà perfettamente cristallizzato.

Progetto di Luisa Giubasso

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Impastatrice fai da te

Un impastatrice fai da te costruita con parecchio materiale di recupero, prepara fino a 6 kg di morbido impasto per panificazione o 2 kg di sodo impasto per paste fresche

Lui lavora in Barilla e in casa sua moglie e sua suocera impastano parecchio, sia pane e pizze sia paste fresche d’ogni genere. Ma naturalmente impastare a mano è faticoso. Così un giorno, il nostro lettore Ennio Sozzi ha sfruttato l’opportunità offertagli dal lavoro e iniziato a studiare attentamente com’è fatta e come funziona una macchina impastatrice.

come costruire un'impastatrice

Avendo da anni la passione di costruire oggetti di meccanica, gli era infatti venuta l’idea di realizzarne una impastatrice fai da te. E così ha poi fatto, utilizzando pezzi di recupero dei più vari più un motore e quattro ruote nuovi, risparmiando, con il suo lavoro, quasi 1000 euro (le impastatrici per uso domestico costano a partire da poco 800 euro).

Soluzioni tecniche per costruire una impastatrice

aspo impastatrice
In evidenza l’aspo dell’impastatrice fai da te

Volendo trasmettere il moto con delle catene, per poterle mettere in tensione occorre che i vari pezzi (motore e sistemi di movimentazione dell’aspo e della vasca) siano ancorati all’intelaiatura con un sistema che permetta spostamenti, qui ottenuto per mezzo di spezzoni a L con fori ad asola, bloccati per mezzo di bulloni e dadi. Affinché l’impasto non formi una palla attaccata all’aspo (così si chiama la spirale o il ferro a C che, ruotando, rigira gli ingredienti), serve un robusto ferro rompi impasto, ottenuto con una spranga verticale fissata all’intelaiatura in posizione scentrata rispetto alla vasca. Inoltre, anche la vasca che contiene l’impasto deve girare, ma molto più lentamente dell’aspo.

Entrambi sono messi in moto dal perno che esce dal rid

uttore, la cui la velocità di rotazione è ulteriormente ridotta, in maniera differenziata per l’uno e l’altra, con corone da ciclomotore e da motocicletta di diverso diametro. Il perno che trasmette il moto richiede, oltre all’ancoraggio all’intelaiatura fornito dal riduttore, anche un altro punto fisso, che è ottenuto con un cuscinetto aggiuntivo calzato in alto sul perno stesso e fissato artigianalmente alla struttura portante.

I sistemi di movimentazione della vasca e dell’aspo sono formati, ciascuno, da un perno con le corone indotte spinate alle estremità, ancorato alla struttura per mezzo di un pezzo di tubo che lo avvolge, lasciandolo libero di ruotare grazie a due cuscinetti interni. L’aspo stesso della impastatrice fai da te è uno spezzone di robusto tondino d’acciaio curvato con sistemi artigianali dopo averlo intaccato in più punti per indebolirlo.

La curva è studiata in modo che raggiunga il contorno interno del fondo della vasca. L’accesso alle parti in movimento è impedito da una griglia di protezione che provvede a inserire e disinserire un micron di sicurezza: alzando la griglia si arresta immediatamente l’impastatrice. Nello spazio libero sopra il motore è alloggiato un cassetto, utile per contenere oggetti per la pulizia della macchina.

Come funziona una colla

In un perfetto gioco di molecole che si attirano o si respingono interviene l’adesivo tessendo una fitta rete di legami. Analisi fisica alla base del funzionamento di una colla

Cercando di descrivere in soldoni e in modo comprensibile a tutti il meccanismo alla base del quale una colla svolge la funzione per cui è nata, bisogna far riferimento alla forza che la lega alle molecole di un determinato materiale: se la scodella rimane scodella, e le molecole che la compongono non se ne vanno a spasso per la cucina, vuol dire che esiste un forte legame di…parentela che le convince a rimanere unite e compatte.

Attrazione verso l’esterno

Quelle che rimangono in prossimità della superficie, affacciandosi sul mondo circostante, sono però portate ad esercitare una parte della loro attrazione verso l’esterno e, in misura diversa a seconda delle sostanze, cercano di attirare molecole appartenenti ad altre famiglie: se l’acqua viene assorbita dalla stoffa vuol dire che l’attrazione molecolare di quest’ultima è superiore alla forza che lega le molecole della prima; quando un oggetto si rompe cadendo, vuol dire che la forza dell’urto è stata superiore a quella che legava le molecole.

Rimettere assieme i cocci e sperare che le molecole si attirino e si leghino di nuovo in maniera spontanea è del tutto illusorio perché, a causa della rottura, alcune di esse si sono rotte o disperse: sui lembi dei vari pezzi, inoltre, si sono depositati il pulviscolo e l’umidità atmosferica, che creano una sorta di barriera. Che fare per colmare i vuoti e ristabilire il legame? Ci servirebbe un…”qualcosa” dalle caratteristiche molto particolari: dapprima dotato di un legame molecolare molto debole, in modo da essere attratto e in qualche modo assorbito dalle superfici, ma capace poi di sviluppare un legame molecolare molto forte, in modo da realizzare una riparazione perfetta.

Questa sostanza è ovviamente la colla, ed il cambiamento di…carattere (da debole a forte o fortissima) avviene grazie al meccanismo di reticolazione o, per dirla in modo più semplice, di indurimento.

Materiali porosi o impermeabili

materiali porosi ed impermeabili

Per scegliere la colla più adatta al nostro scopo dobbiamo, in via preliminare, prendere in considerazione la natura delle superfici su cui ci dobbiamo ancorare, per sfruttarne a nostro vantaggio le caratteristiche: da questo deriva che è sempre più facile unire due pezzi dello stesso materiale (poroso o no), perché possiamo contare su un identico comportamento nei confronti dell’adesivo. In caso di incollaggi eterogenei (ad esempio legno e metallo) si tratterà di trovare il miglior compromesso possibile, tenendo anche conto di altre esigenze come il tempo di presa, la resistenza alla fatica ed agli agenti atmosferici, ecc.

Materiali rigidi o flessibili

materiali rigidi o flessibili

Determinati oggetti, come ad esempio le scarpe, sono soggetti a continue flessioni durante l’uso: se incollassimo la suola con un adesivo molto efficace, ma che una volta indurito crea un film rigido, avremmo trasformato le nostre calzature in un… paio di zoccoli. Il discorso è del tutto diverso, invece, se dobbiamo assemblare le parti di un mobile in legno: potremo avere nel tempo piccolissime variazioni di dimensione dovute alla temperatura ed al grado di umidità dell’ambiente, ma il tutto rimane sostanzialmente un blocco monolitico. Il grado di rigidità del materiale e le sollecitazioni che deriveranno dall’uso sono quindi un ulteriore elemento di cui bisogna necessariamente tenere conto.

Materiali combacianti o sconnessi

materiali combacianti o sconnessi

Dato per scontato che una colla lavora al meglio se viene erogata in bassi spessori, resta il fatto che deve creare un legame indissolubile tra i pezzi da unire: se questi combaciano alla perfezione (nelle applicazioni pratiche succede molto di rado) potremo usare un prodotto molto fluido mentre, se ci sono dei vuoti (per quanto microscopici) da colmare, avremo bisogno di un adesivo più consistente. Quando i pezzi da unire non sono combacianti, però, si ha il vantaggio che la superficie reale su cui la colla può fare presa è molto superiore a quella teorica.

Impossibili da incollare

Se un determinato materiale ha un’attrazione di superficie molto bassa, sarà difficile trovare una sostanza con una forza ancora inferiore, che possa quindi legarsi alla prima: ecco perché alcuni materiali come il polietilene, il polipropilene o il teflon risultano impossibili da incollare con i consueti adesivi (non per nulla il teflon viene usato per rivestimenti antiaderenti, ad esempio sul fondo delle padelle …).

Come dei bottoni

Se paragoniamo le molecole di colla a dei bottoni ed il meccanismo di reticolazione ad un filo che progressivamente attraversa i diversi fori, ci rendiamo conto del fatto che il legame, dapprima debole, diventa sempre più solido man mano che il nostro filo continua a passare tra i fori, fino a che li ha interessati tutti. Morale della favola: per quanto apparentemente robusto, un incollaggio non va mai sollecitato subito, anche se si tratta di un adesivo di tipo “istantaneo”. Nel mondo delle colle esistono poche regole senza eccezioni, salvo questa: il tempo di presa apparente non coincide mai con quello reale, ma è sempre notevolmente più lungo. Anche i collanti cosiddetti “a contatto”, usati ad esempio per incollare il cuoio, hanno bisogno di circa 24 ore per dare il massimo delle prestazioni

La presa iniziale della colla

presa iniziale della colla

La forza sviluppata dall’adesivo al momento dell’incollaggio (o subito dopo) dipende dalla rapidità con cui avviene la prima fase della reticolazione o, per stare al nostro esempio, da quante passate di filo attraversano i bottoni che simboleggiano le molecole. I pezzi stanno insieme, ma…

Tenuta finale della colla

tenuta finale della colla

La giunzione offre il massimo della resistenza solo dopo che il processo di reticolazione è terminato, ed i nostri bottoni formano una solida catena. La scelta di privilegiare la tenuta iniziale o quella finale, in funzione della destinazione d’uso dell’adesivo, influisce sulla formulazione chimica.

resisten za incollaggio
La resistenza dell’incollaggio passa dal valore iniziale minimo (che può anche essere elevato)
a quello massimo entro un determinato arco di tempo.

La bagnabilità di una collabagnabilità colla

Volendo ricreare un legame tra i componenti di una famiglia separati da un evento traumatico (la famosa scodella che cade e si rompe) o stabilire una nuova parentela tra due famiglie simili (legno con legno, ferro con ferro, ecc,) o addirittura diverse (legno e muro, plastica e ceramica, ecc.), la colla non può restare fuori della porta, appoggiandosi soltanto sulla superficie: la capacità di penetrare all’interno del materiale e di creare i presupposti per un’ottima presa viene appunto definita “bagnabilità”.

Stendere la colla con il pennello

colla con pennello

Restando tra il serio ed il faceto, potremmo dire che le setole del pennello fanno il solletico alle molecole e, mettendole di buon umore, le rendono disposte ad accogliere la colla come gradito ospite; in realtà ogni singola setola esercita una pressione forte e progressiva, che fa penetrare l’adesivo.

Stendere la colla con la spatola

colla con spatola

Con tutti quei denti sembra un tantino aggressiva ma, proprio grazie alla… dentatura, ha il vantaggio di creare un film di spessore uniforme, pareggiando le eccedenze e colmando i vuoti: basta scegliere la spatola adatta e manovrarla nel modo corretto per stendere in fretta la giusta quantità di prodotto.

In definitiva è fondamentale utilizzare una colla specifica per un utilizzo specifico: la gamma di colle proposta da Pattex Henkel risponde a questa specifica esigenza.

HG-Klebstoffe Colla industriale, extra forza
  • Colla industriale di ultima generazione, composizione migliorata, made in Germany.
  • Colla per legno, metallo, alluminio, porcellana, ceramica, gomma, teloni, plastica, vetro, pelle (scarpe), pietra, marmo, PVC, EPP, ABS, PMMA.
  • La colla per i professionisti del fai da te (es. modellismo, riparazioni auto, campeggio, casa, tempo libero, riparazioni elettriche, ecc.),per incollare, per esempio, legno e metallo o plastica.
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5 tips per installare il pavimento grès effetto legno

Il grès effetto legno è un materiale particolarmente apprezzato in edilizia grazie all’elegante estetica che richiama il legno, alla resistenza e alla versatilità di utilizzo in ambienti differenti sia residenziali. È perfetto per essere installato sia in ambienti interni che esterni ed è un prodotto di eccellenza del Made in Italy con aziende come Marazzi che hanno fatto dell’innovazione tecnologica e della ricerca i propri punti di forza che gli hanno permesso di disporre oggi di un’offerta unica di prodotti e servizi che spaziano dalle grandi lastre in grès di ultima generazione ai piccoli formati della tradizione fino alle pareti ventilate e i pavimenti sospesi.

Di seguito troverete 5 consigli per installare al meglio un pavimento in grès effetto legno, grazie alla funzionalità di questo materiale.

Come posare il grès

Il grès porcellanato è una miscela di materie prime dall’aspetto duro e compatto che contiene il caolino, un’argilla bianca, adoperata anche per produrre la porcellana. Le lastre in grès effetto legno sono perfette per il rivestimento di superfici sia orizzontali che verticali in ambienti interni ed esterni. I supporti necessari per estrarle dagli imballaggi sono:

  • Barre con ventose;
  • Carrello rinforzato;
  • Banco di lavoro con profilati in alluminio.

Una volta verificato di avere questa attrezzatura (e che il materiale corrisponda a quello del progetto) si può procedere con il togliere le lastre dagli imballaggi, in uno spazio idoneo per avere la più ampia libertà di manovra possibile, al pianterreno. Attraverso le maniglie con ventose si inseriscono i paraspigoli e il gioco è fatto.

L’alternativa è quella di usare un kit di sollevamento, dotato di più ventose che vanno fatte aderire alla lastra facendo pressione sugli stantuffi; si ha una sorta di telaio con ventose, che permette di appoggiare in tutta sicurezza la lastra al carrello rinforzato, un modo funzionale per spostarla dallo spazio iniziale a quello dove poi avverrà la posa. Importante: in entrambi i casi è necessario pulire la lastra, per permettere la massima aderenza della ventosa. A questo punto la lastra dovrà essere posata sul banco di lavoro in alluminio.

Scegliere il tipo di posa

Fondamentale è stabilire quale tecnica di posa si vuole attuare: regolare, geometrica, a incastro; ma anche il tipo di materiale con cui attaccare la piastrella alla superficie, il collante. Una volta preparato l’adesivo idoneo (seguendo le istruzioni riportate sulla confezione) e controllata la planarità della superficie si potrà procedere posando la colla e facendovi aderire la piastra aiutandosi con la mazzuola di gomma.

Dimensionare correttamente le fughe

Fondamentale la corretta larghezza della fuga e il rispetto dei giunti perimetrali. Per un risultato ottimale è importante la precisione e l’attenzione ai dettagli. Le fughe sono un elemento assolutamente non marginale.

Scegliere la direzione corretta di posa

Altri elementi da considerare sono la corretta direzione di posa (meglio verso la luce) e il formato dei listoni che dovrà essere di spessore adeguato rispetto alla colla. Anche questo nell’ottica di un’installazione ottimale.

Fare una stuccatura adeguata

Il passaggio successivo è la stuccatura, per la quale sarà necessario attendere che la colla sia dura e quindi almeno un giorno. Lo stucco è bene che sia fatto tono su tono e prima di pulire le rifiniture sarà necessario aspettare che si asciughi e quindi bisognerà attendere almeno 36/48 ore per poter pulire adeguatamente le fughe; la pulizia andrà fatta in più fasi con una passata finale con una soluzione acida attraverso un panno umido.

Posando le piastrelle di grès effetto legno con i dovuti accorgimenti si avrà un pavimento facile da pulire e capace di durare a lungo nel tempo. Con tutta l’eleganza del grès.

Morsa angolare fai da te per fissaggi a 90°

Una morsa angolare realizzata tutta di metallo, per un utilizzo orientato alle costruzioni con il ferro, che permette di tenere in posizione due pezzi che debbano essere uniti con angolo di 90°

Fra gli accessori che si possono autocostruire, per arricchire la propria dotazione, sicuramente rientrano morse e strettoi di vario genere, strumenti utilissimi, di cui c’è sempre bisogno e che non sono mai troppi. Costruiamo una morsa angolare per giunzioni a 90°, un tipo di strettoio che si usa sia nelle costruzioni con il ferro, sia con il legno. Quello che di solito differenzia le due tipologie è la robustezza, parametro necessario in tutti i casi, ma determinante nel caso del ferro, dato il peso solitamente maggiore dei pezzi che si devono unire. Per ottenere robustezza e rigidità, la costruzione viene fatta con elementi di ingente spessore; con la conseguenza di avere un oggetto risultante di peso elevato, come del resto confermano i modelli di morsa angolare che si trovano in commercio.

La morsa ha un aspetto che fa subito capire a cosa serva e quale sia la dinamica della sua azione. Pur essendo nel suo insieme un accessorio mobile, è composto da una parte “fissa” che fa da supporto e scontro per gli elementi da mettere in giunzione; questa è indubbiamente una parte che deve assicurare la massima rigidità, quindi è di elevato spessore. Inoltre deve avere due speciali caratteristiche: una è l’ampia apertura sull’angolo, necessaria per poter lavorare di fissaggio in testa ai due pezzi da unire, mediante saldatura, foratura e avvitatura, rivettatura ecc.

La seconda è l’allargamento delle ali a 90° che non risultano semplicemente piegate: le due ali sono realizzate con un corposo profilato angolare d’acciaio saldato esternamente alla piastra portante. Questo perché la semplice piega impedirebbe al pezzo stretto nella morsa di aderire correttamente all’ala esterna, per la curvatura, seppure minima, che resta nell’angolo interno. Con la saldatura esterna si ovvia al problema. La parte “mobile” è il pressore con barra filettata, fatto con robusti pezzi di piatto uniti a 90°; anche questo deve lasciare debito spazio di manovra nell’angolo di giunzione.

Vista da sotto, si nota come le due ali siano costituite da segmenti di angolare d’acciaio saldati alla piastra quadrata. Com’è ovvio, è basilare, nel fissaggio, far rimanere le due ali in squadra fra loro e rispetto alla piastra. Un quarto elemento è un pezzo piatto di rinforzo, saldato a 45°, che deve avere spessore identico alle ali, per offire un appoggio in piano alla morsa.
Dopo la saldatura delle ali, si rimuove con la smerigliatrice angolare anche la porzione in angolo della piastra di base, poi si salda e si fora un pezzo di tubolare sull’angolo opposto.
Terminata la pulizia delle saldature e la levigatura degli spigoli vivi, si può colorare il pezzo.

Cosa occorre per costruire la morsa angolare fai da te

  • 1 pezzo lamiera zincata 100x100x3 mm;
  • 2 pezzi angolari di ferro 30x30x4 mm;
  • 1 pezzo tubolare di ferro 30x20x2 mm lungo 60 mm;
  • 1 pezzo tubolare di ferro 30x20x2 mm lungo 28 mm; 2 pezzi di piattina 60x30x5 mm;
  • 1 pezzo di piattina 100x20x4 mm;
  • 1 pezzo di piattina 50x25x5 mm;
  • 1 pezzo barra filettata Ø 8 mm lungo 210 mm;
  • 2 barilotti di ferro Ø 13 mm lunghi 25 mm;
  • 1 bullone Ø 8 mm lungo 50 mm;
  • 1 bullone Ø 5 mm lungo 7 mm;
  • 3 bulloni Ø 5 mm lunghi 10 mm;
  • 1 tubetto di plastica Ø 10 mm lungo 39 mm (Ø interno 9 mm);
  • 1 copiglia Ø 2 mm lunga 15 mm;
  • 4 dadi Ø 8 mm; 2 rondelle con foro Ø 8 mm;
  • antiruggine;
  • vernici.

Pressore con barra filettata

L’elemento nodale del pressore ha il profilo con ali a 90° per comprimere i pezzi, obbligandoli ad assumere la posizione desiderata. È fatto da due pezzi di piatto spessi 5 mm, saldati sul tubolare lungo 60 mm tagliato lateralmente a 90°.
I due barilotti di ferro servono per il movimento del pressore; a uno si allarga leggermente il foro laterale, rimuovendo il filetto interno, in modo che la barra filettata possa passare liberamente, seppure di misura.
I barilotti vanno forati in testa, su entrambe le estremità, poi il foro va filettato M5 per il fissaggio con viti. Sopra, la vite ha testa piatta.
Nella parte sotto, non essendoci spazio, si realizza un grano tagliando via la testa della vite e facendo un taglio diagonale sull’estremità per poterlo avvitare con un cacciavite.
L’estremità della barra filettata ha: due dadi stretti uno sull’altro, in modo che restino bloccati in quella posizione, rondella, barilotto passante, rondella e copiglia inserita in un foro fatto trasversalmente. L’altezza del barilotto è tale da entrare in piedi nel tubolare del pressore, a cui viene rimosso il lato frontale.
Presentando l’estremità della barra con il barilotto nello scatolato (notare che è stato aperto anche dietro), si mettono la vite con testa piatta (sopra) e il grano (sotto), dove l’angolare deve stare aderente alla piastra d’appoggio.
Nella barra filettata ci sono in tutto quattro dadi (uno cieco). Di fatto sono due coppie di elementi stretti fra loro a scopo di bloccaggio.
La manovella si realizza con un pezzo di piatto forato in due punti Ø 8 mm, un tubetto di plastica e un bullone M8 a testa tonda, a cui si taglia via la parte filettata.
Si calza il tubetto di plastica sullo stelo del bullone, lo si imbocca nel foro liscio del piatto e si danno due punti di saldatura per bloccarlo, senza insistere, per non fondere la plastica. Il secondo foro si filetta per avvitarvi la barra M8, bloccandola poi con un dado normale sul davanti, e uno cieco applicato per ultimo.

Progetto di Mario Giampietro